Raitre ha scelto di aprire il 2024 proponendo in prima serata il docufilm di Riccardo Milani “Io, noi e Gaber”, già visto qualche settimana fa al cinema. Un segno anche questo dell’attenzione che continua a circondare l’artista e intellettuale milanese di origini triestine, scomparso il primo gennaio 2003. Ventun anni senza Giorgio Gaber, che è stato comunque e sempre presente nel panorama culturale, se vogliamo anche politico di casa nostra. Con i versi delle sue canzoni e dei suoi spettacoli, con le sue idee, le intuizioni, persino le sue provocazioni. Un segno della grandezza, dell’importanza del suo pensiero, che l’ha sempre posto una spanna sopra i suoi “colleghi” del mondo della canzone e del teatro italiani.
Già, perchè Giorgio Gaberscik in arte solo Gaber, nato a Milano nel ’39, aveva cominciato come cantante di musica leggera ma a un certo punto del suo percorso personale e artistico si era trovato stretto in quegli abiti. E assieme all’amico e collaboratore Sandro Luporini si era inventanto il Signor G, il teatro canzone, gli spettacoli e le tournèe attraverso i quali non ha mai corso il rischio della banalità.
Ma andiamo per ordine, ricordandone il grande tragitto artistico. La passione per la musica l’eredita dal padre Guido, gran suonatore di fisarmonica. Comincia a suonare la chitarra a otto anni, per emulare il fratello maggiore ma anche per esercitare quella mano sinistra ferita dalla poliomelite. Ascolta jazz e studia ragioneria, nella Milano del dopoguerra, dove la sua famiglia si era trasferita da Trieste pochi anni dopo la sua nascita. Comincia con un gruppetto jazz in cui suonava anche Luigi Tenco, ma nel frattempo esplode il rock’n’roll. Con Enzo Jannacci prima poi fonda “I due corsari”, poi accompagna Celentano nelle sue prime esibizioni. Negli anni Sessanta arriva il grande successo, anche televisivo: Sanremo, il Festival di Napoli, Canzonissima, il matrimonio con Ombretta Colli. Allora cantante, femminista e di sinistra, per la quale aveva lasciato la storica fidanzata Maria Monti, anche lei cantante e donna di spettacolo, con cui aveva debuttato a teatro nel ’59. Nel ’69 e nel ’70 le tournèe teatrali assieme a Mina. Fu lì, confessò molti anni dopo, che maturò la scelta della “seconda vita artistica”. Erano anni particolari, di cambiamenti, di riflessione, di impegno politico.
“Il signor G” nasce nel ’70: primo di una lunga serie di spettacoli di teatro-canzone, con cui l’artista scandaglierà le sue ma anche le nostre umane debolezze, i tic, i timori, le speranze, i fallimenti. Fustigando i costumi e criticando il consumismo, l’omogeneizzazione della cultura, la galoppante massificazione dei gusti. Disse tanti anni dopo: «La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non, che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo».
Ancora Gaber: «Poi mi sono chiesto se successo, popolarità e denaro che ne derivava dovessero condizionare la mia vita, le mie scelte. La risposta mi sembra risulti chiara: ho scoperto che il teatro mi era più congeniale, mi divertiva di più, mi permetteva un’espressione diretta, senza la mediazione del disco o di una telecamera frapposta tra l’artista e il suo pubblico. Le entrate erano sicuramente minori rispetto ai proventi derivanti dalla vendita dei dischi, ma guadagnavo abbastanza da non dover soffrire la scelta di campo. E rispetto al denaro, penso che se si riesce a guadagnare una lira di più di quello che è necessario per vivere discretamente si è ricchi».
Tanti spettacoli, allora. Prima nella divisa da contestatore (maglione blu, jeans e scarpe Clarks), poi di nuovo in giacca e cravatta. “Dialogo tra un impegnato e un non so”, “Far finta di essere sani”, “Anche per oggi non si vola”, “Libertà obbligatoria”, “Polli di allevamento”. E ancora “Anni affollati”, “Io se fossi Gaber”, “Parlami d’amore Mariù”, “Il grigio”, “E pensare che c’era il pensiero”.
L’ultima volta che lo vidi, novembre ’98, Trieste, Politeama Rossetti, lo spettacolo era “Un’idiozia conquistata a fatica” e lui era già da tempo malato. Glielo vedevi in faccia, al cantore del nostro eterno disagio esistenziale. Ma alla fine dello spettacolo, sudato e visibilmente affaticato, almeno per un attimo ci sembrò felice. Felice del fatto che la gente cantasse ancora una volta in coro le sue vecchie canzoni, quelle che non faceva quasi mai mancare fra i bis: “La ballata del Cerutti” e “Porta romana”, “Torpedo blu” e “Barbera e champagne”, persino “Non arrossire” («Questa è del ’60. E non era nemmeno la prima…», disse con un sorriso agrodolce).
Era il suo ultimo spettacolo, lo sapeva lui per primo. Con parole che avrebbero avuto di lì a poco una sorta di compendio nei dischi “La mia generazione ha perso” e “Io non mi sento italiano” (ma per fortuna o purtroppo lo sono, proseguiva il verso…). Quasi il testamento di un uomo deluso e disilluso. Alla mia consueta domanda «Gaber, dov’eravamo rimasti?», nell’ultima di tante interviste, rispose: «Al pensiero, alla preoccupazione di un’assenza totale di pensiero. Che ora è stata sostituita da… un’idiozia conquistata a fatica. Quindi andiamo peggio, perché la situazione della vita è peggiorata. Non dal punto di vista politico, su cui si potrebbero comunque fare tante considerazioni. Andiamo peggio perché segnali positivi dall’umanità non ne arrivano». E ancora: «Prendo atto dello scadimento generalizzato della qualità delle persone. Quindi diventa difficile non sentirsi coinvolti in questa idiozia. Non sto parlando di qualcuno in particolare, anche se ci sono quelli più e meno idioti, ma proprio di uno scadimento generale delle coscienze. Con Sandro (Luporini, ndr) colleghiamo questo fenomeno all’espansione del mercato, al consumo. Il mercato ci garantisce benessere ma ci condiziona la vita, annienta la consapevolezza e la coscienza».
Di dischi e libri su Gaber, in questi anni, ne sono usciti tanti, quasi sempre sotto la garanzia della fondazione a lui intitolata. In “G. Vi racconto Gaber”, scritto anni fa da Sandro Luporini (Mondadori-Fondazione Gaber), l’amico e coautore ruppe per la prima volta il suo leggendario riserbo. «Avrebbero voluto da Giorgio e da me delle risposte. Proprio da noi che abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio». Già, il dubbio. L’insegnamento forse più grande che ci ha lasciato Giorgio Gaber.