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“Una strategia di intimidazione della libera stampa”. Il monito di Giancarlo Caselli sugli ultimi bavagli

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Un clima intimidatorio verso i giornalisti. Lo stanno avvertendo molti osservatori, magistrati, sindacati, associazioni. Dunque non è più la sensazione di una categoria permalosa quale potrebbe essere definita quella dei giornalisti che infatti, per il tramite degli organismi di rappresentanza, Cnog, Fnsi, associazioni regionali, si prepara a dare battaglia. Ne abbiamo parlato con una delle voci più autorevoli nell’analisi del rapporto tra politica, magistratura e informazione, Giancarlo Caselli.
Veniamo subito al punto: secondo lei si può fare qualcosa per arginare le riforme che limitano la libertà di informazione? Peraltro iniziata già con la cosiddetta “legge Cartabia”?
Per quanto riguarda l’informazione giudiziaria – ma ahimè non solo – è in atto da tempo (e da più governi, sia chiaro), una strategia di intimidazione della libera stampa: riforme pretestuose, spesso giuridicamente astruse che, indipendentemente dall’effettiva e concreta possibilità di applicazione, hanno il preciso scopo di frenare il giornalista: attenzione, se sgarri rischi grosso, una pioggia di querele (pazienza se poi sono temerarie…) e multe severissime. E visto che le querele le paga l’azienda (e il direttore responsabile della testata ne risponde) le conseguenze si possono facilmente immaginare.
E’ ipotizzabile un’alleanza trasversale, che includa magistrati, avvocati uomini e donne di buona volontà per affermare l’esigenza di una maggiore trasparenza degli atti? Anche quelli investigativi (una volta concluse le indagini)?
Certo. La trasparenza degli atti investigativi è un diritto costituzionale a tutela prima di tutto dell’indagato. Vietare la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare temo abbia poco a che fare con la salvaguardia della presunzione di colpevolezza, a meno di non accettare che qualcuno possa essere privato della libertà personale senza che le motivazioni di un tale provvedimento siano immediatamente accessibili alle parti e dunque pubbliche. Il motivo, come dicevo prima, è silenziare le indagini sui colletti bianchi. Non mi pare che nell’ambito di eclatanti casi di cronaca nera la politica si indigni più di tanto se vengono  diffusi particolari, a volte anche morbosi, delle indagini in corso.
Da circa 30 anni si cerca di modulare il narrandum della cronaca giudiziaria, specificando quasi in modo maniacale quando e come scrivere delle inchieste. E se una volta ci fermassimo a pensare come cambiare il narrato, ossia i fenomeni che sono alla base della cronaca giudiziaria italiana (mafia, corruzione, evasione)?
Questa è l’altra faccia della medaglia, perché il mondo del giornalismo non è certo esente da responsabilità. Spesso la cronaca giudiziaria, in assenza di “grandi inchieste”, rischia di trasformarsi in una forma di “pesca a strascico” di  faldone in faldone. Certi  cronisti fanno a gara a superarsi e – più che al lettore – talvolta danno l’impressione di parlarsi tra loro da una testata all’altra. Il narrato non va impedito, ma autoregolato certamente sì.


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