Espando qui la riflessione, ironica e amara, che ho formulato l’altro giorno col mio edicolante: “Se Angelucci compra Repubblica, smetto io!”.
Non si tratta di una questione personale né intendo esprimere alcun giudizio su questo editore, deputato leghista e proprietario di alcune importanti cliniche private nel Lazio. Non entro nel merito delle sue idee, delle sue scelte e della sua visione del mondo, ovviamente rispettabile come quella di qualunque altro cittadino. E non mi ergo a tribunale: non emetto sentenze, non giudico condotte, non mi arrogo diritti che non sono i miei.
Mi limito, da lettore e uomo di sinistra, a dire quello che penso.
Angelucci è editore di tre giornali: Il Tempo, Libero e il Giornale. Avrebbe voluto acquistare anche La Verità, per dar vita a un grande polo editoriale della destra, ma per ora non ci è riuscito, e nessuno intende sindacare su questo. Potremmo riflettere sull’opportunità delle concentrazioni editoriali, ma il discorso si amplierebbe a dismisura e non è questa la sede.
Stando ai fatti, ora apprendiamo che il nostro, come ha scritto Tommaso Rodano sul Fatto lo scorso 31 dicembre, oltre a Radio Capital, sarebbe interessato ad acquistare dalla famiglia Elkann anche Repubblica. In attese di auspicabili smentite, ci limitiamo a prendere atto di questa indiscrezione. Ebbene, già abbiamo assistito con sgomento alla dismissione di MicroMega e dell’Espresso dal gruppo editoriale cui la storica rivista un tempo dava il nome. Già abbiamo constatato che la nostra Repubblica, quella su cui ci siamo formati, quella che personalmente leggo da oltre vent’anni, la testata per cui da ragazzo sognavo di scrivere, diciamo che non sta attraversando una delle sue stagioni migliori, volendo tacere delle vendite in calo. Ma qualora dovesse finire nelle mani di una personalità di spicco della destra italiana, saremmo costretti a prendere atto che non esisterebbe più alcun legame con la storia e la tradizione di sinistra liberale che le è propria.
Per noi Repubblica costituisce tuttora un patrimonio imprescindibile, un punto di riferimento e un simbolo del pensiero azionista. Nonostante questo, non siamo ingenui e non chiudiamo gli occhi: i troppi cambiamenti che ha subito nell’ultimo decennio non solo non li abbiamo condivisi ma li abbiamo garbatamente avversati, fatta salva l’ottima direzione di Carlo Verdelli, evidentemente ritenuto troppo progressista dai proprietari di Stellantis. Angelucci, almeno per me, sarebbe troppo. Al che, non avendo altro modo per manifestare il mio dissenso, qualora la prospettiva dovesse concretizzarsi, non potrei far altro che dire al mio edicolante: “Grazie, ma da domani togli un giornale dalla mia mazzetta”. Sarebbe come amputarsi un braccio o una gamba, per me che sono cresciuto con Eco, Rodotà, Bocca, Scalfari, Berselli e via elencando. Il.punto è che, oltre a essere un lettore, sono anche un giornalista, e un giornalista deve raccontare la realtà per come è, non per come vorrebbe che fosse. E quella stagione, purtroppo, è definitivamente tramontata.
In conclusione, non mi resta che esprimere solidarietà ai colleghi e alle colleghe dell’agenzia DIRE, fatti oggetto di un piano di licenziamenti che non può e non deve lasciarci indifferenti. E riflettere sull’idea del solito Angelucci – sempre lui! – di acquistare anche l’AGI, l’agenzia di stampa oggi di proprietà dell’ENI. Ne ha facoltà, ma magari sarebbe il caso che qualcuno a sinistra si rendesse conto di quel che sta accadendo e del rischio concreto che metà del Paese rimanga senza voce. L’altra metà ha tutto il diritto di dire la sua, ci mancherebbe altro, ma una certa idea di mondo non può svanire così.
Non c’è nulla di illegale in tutto questo, sia chiaro, ma mille pensieri si inseguono e molte considerazioni andrebbero compiute in proposito.
Ribadisco: come ho smesso di guardare da anni alcuni telegiornali, cui non riconosco più la qualità e l’attenzione al pluralismo di un tempo, così smetterei di acquistare un quotidiano che ha rappresentato una parte importante della mia vita e della mia crescita umana e professionale ma nel quale, già adesso, stento sempre di più a riconoscermi.
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