L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha varato le linee guida sui cosiddetti «influencer», ivi comprese attività affini o contigue.
Siamo al cospetto di una (relativamente) nuova parola, che connota un certo clima del nostro tempo. Un’età, quella in cui stiamo, segnata da forme di coinvolgimento emozionale eccentriche rispetto ai modelli tradizionali della pubblicità e del marketing comunicativo.
Non è un mondo minore, bensì un vasto arcipelago del contemporaneo lavoro intellettuale, che piaccia o no. Nella giungla dei canali You Tube, di Instagram, di Facebook, di Tik Tok e -in generale- nell’universo dei social i blogger sono diventati via via riferimenti della e nella cultura di massa.
Chiara Ferragni (il caso, non sololei), al di là delle vicende giudiziarie in cui è coinvolta e comunque facile capro espiatorio, ci dice quanto il tema sia esploso in maniera tardivamente clamorosa, dopo un lungo periodo di sottovalutazione e di pregiudizi elitari.
Intendiamoci. Non si tratta di manifestare qualche simpatia per simili modalità di formazione delle correnti di opinione. Tuttavia, il problema è rilevante e non va relegato a un problema di coercizione.
Tuttavia, bene ha fatto l’Agcom ad avviare la consultazione pubblica sulla materia lo scorso 13 luglio e a deliberare infine nella riunione del consiglio del passato 10 gennaio. Un tavolo tecnico definirà il tutto in termini operativi, attraverso codici di condotta realizzati con procedure di co-regolamentazione.
Il punto chiave del documento sta nell’equiparare tali pratiche ai servizi media audiovisivi, così come dettato dal decreto legislativo n.208 del 2021 che recepì -appunto- la direttiva europea SMAV. Devono essere osservati, dunque, i principi di trasparenza e di correttezza, nonché quelli a tutela dei minori. Non solo. Viene fatto obbligo di ottemperare alle disposizioni sulle comunicazioni commerciali e a quelle volte a segnalare le finalità promozionali o pubblicitarie.
Le linee in questione valgono per chi ha almeno un milione di follower, 24 contenuti pubblicati in un anno e un adeguato tasso di coinvolgimento. Le sanzioni rimandano al Testo unico.
Simili scelte, affinché non si risolvano in pure grida, richiedono una puntuale cura attuativa.
Va sottolineato, per completezza, che simile tipologia ai confini tra la captazione del consenso e la brutalità del mercato non nasce oggi.
Nell’anniversario della ormai famosa scesa in campo di Berlusconi -con il videomessaggio che cambiò le precedenti modalità di rapportarsi al pubblico trasformato in audience– è utile ricordare che alle origini dello stile influencer ci furono le telepromozioni.
Quel formato particolare di pubblicità, inserito come siparietto durante i programmi con il volto e la voce di chi conduceva i programmi stessi, toccava le corde dell’utenza coinvolta e affezionata inducendola ad acquistare i prodotti presentati da personaggi entrati nella vita domestica.
Si determinò un’aspra lotta politica, perché Fininvest-Mediaset non intendeva calcolare gli spazi (piuttosto lunghi) come avveniva con gli spot.
Fu una vicenda alquanto sgradevole, che vide l’utilizzo strumentale delle tante figure note che popolavano i canali del Biscione. Eravamo nei primi anni novanta del secolo scorso e Maurizio Costanzo dedicò una serata all’argomento dal titolo evocativo «Vietato vietare».
La storia si concluse con un mezzo compromesso (le telepromozioni venivano conteggiate sì, ma in modo diverso), in una stagione di conflitti rilevanti attorno alla concentrazione televisiva.
Comunque, le tracce del fenomeno si collocano in un’era lontana, che ha lasciato segni forse indelebili. Non letti e indagati.
Naturalmente, la portata dei potenti epigoni di oggi è ben maggiore.
Per questo è giusta e utile l’iniziativa dell’Agcom. Non basta, però, lavarsi la coscienza con delle linee guida esposte ad interpretazioni varie o magari ai classici ricorsi.
C’è da chiedersi se anche per tale via non si sia entrati in una vera e propria lotta per l’egemonia culturale, in una sfera di sensi e di consensi che i vecchi idiomi non capiscono.