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RAI TV: 70 anni e sembra ieri. Il 3 gennaio 1954 nasceva la TV in Italia, ma non solo

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Il 3 gennaio 1954, con l’avvio delle prime trasmissioni televisive, nacque la RAI Radiotelevisione Italiana.

E nacque trent’anni dopo le prime trasmissioni radiofoniche della RAI (Radio Audizioni Italiana) che all’epoca, nel 1924, si chiamava URI (Unione Radiofonica Italiana). Una società privata a cui il governo di allora assegnò la “concessione in esclusiva delle radioaudizioni circolari” per sei anni. L’URI divenne poi, nel 1927, EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), prima come società anonima, per poi diventare società per azioni nel 1942.

L’EIAR era una società privata, ma il governo, nel decreto di concessione di trasmissione per 25 anni, si assegnava quattro membri del consiglio di amministrazione; inoltre assegnava al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni prerogative in merito allo statuto e alle sue modifiche. Un controllo governativo fondamentale perché, in pieno periodo fascista, la radio fu così in grado di diventare ben presto organo prezioso del regime, soprattutto come importante strumento di propaganda politica. I ricevitori venivano creati (come la radio Balilla della Radiomarelli o la radio Rurale) per essere installati in zone di riunione collettiva, come appunto gli ambienti rurali dei coltivatori che si radunavano per l’ascolto, oppure in luoghi come le piazze e le scuole.

Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1944 le sedi locali dell’EIAR operarono diversamente lungo la penisola: da una parte come organo di regime nella Repubblica di Salò e dall’altra, cioè in tutte le altre zone d’Italia, con una propria autonomia. Dopo l’arrivo degli alleati, le sedi EIAR vennero gestite dalla Psychological Warfare Branch, un organismo del governo militare anglo-americano incaricato di controllare i mezzi di comunicazione di massa italiani. Solo Il 26 ottobre 1944, con l’Italia liberata, tutte le Sedi italiane dell’EIAR furono riunificate e riaperte con il nuovo acronimo RAI, come detto: Radio Audizioni Italiana. La RAI era allora una società a capitale privato controllato dalla SIP (Società Idroelettrica Piemonte) che operava prima nel settore elettrico poi in quello telefonico.

Ma nel 1952, quando il Governo affidò alla Rai, tramite una concessione con scadenza, l’esclusiva delle “radioaudizioni circolari, della televisione e della filodiffusione”, tutte le azioni della società passarono all’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale: un ente pubblico economico italiano con funzioni di politica industriale, istituito già nel 1933 in periodo fascista. Così il governo ebbe il controllo della RAI. Si introdusse poi il canone televisivo, canone peraltro già nato nel 1938 per la radio (abbonamento alle radioaudizioni).

Nel 1947, al termine della Seconda guerra mondiale, negli USA cominciarono le regolari trasmissioni televisive in bianco e nero (le sperimentazioni e le relative trasmissioni – nate a partire dalla metà degli anni 30’ – si erano arrestate, così come in Europa e nel nostro paese, per lo scoppio della guerra).

L’Italia cominciò le trasmissioni in bianco e nero sette anni dopo, nel 1954 appunto, quando invece negli Stati Uniti cominciarono le trasmissioni della Tv a colori. Il 1954 è anche l’anno in cui Trieste ritornò italiana, in un paese devastato e impoverito dalla guerra che avrebbe conosciuto presto il cosiddetto miracolo economico, che però stava solo cominciando agli inizi degli anni ’50.

Infatti in quel giorno del 3 gennaio 1954, che vide l’esordio della Tv in Italia, i televisori accesi furono veramente pochi rispetto alla popolazione. Il televisore era all’epoca un bene di lusso, costava mediamente 450.000 lire circa. Quasi come il costo di un’automobile e circa dodici mensilità di stipendio. Ma il televisore, cominciò maggiormente a diffondersi solo negli anni seguenti, rimanendo però un bene che non tanti potevano permettersi. Perciò si diffuse l’abitudine, o il “rito”, di radunarsi per visioni di gruppo nei bar, o nelle case dei propri conoscenti dotati del costoso apparato. In particolare per le trasmissioni di telequiz così tanto popolari, come i loro conduttori, Mario Riva con Il Musichiere e Mike Bongiorno con Lascia o raddoppia?

Inizialmente i programmi duravano quasi quattro ore, la pubblicità non esisteva. Le trasmissioni iniziavano alle 17.30 con La Tv dei ragazzi.

Il telegiornale, di 15 minuti e diretto da Vittorio Veltroni, fu trasmesso regolarmente con inizio alle ore 20:45. Tre anni e un mese dopo (3 febbraio 1957), con la nascita del Carosello, l’orario di messa in onda venne anticipato alle 20:30. Passò poi alle ore 20:00 (tutt’ora in vigore al TG1) il 2 dicembre 1973, per la politica di austerity del governo italiano, volta al contenimento del consumo energetico, in seguito alla crisi petrolifera del 1973.

Il Carosello, ovvero la comparsa della pubblicità nella televisione italiana, ma in forma di rigorose regole stilistiche e narrative tratte dal mondo del cinema, divenne subito famoso. E scandiva i tempi delle famiglie: dopo il Carosello i bambini andavano a letto.

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Dalla fine del 1958 la Rai cominciò a utilizzare l’apparato Ampex 2 pollici. Messo in produzione l’anno prima negli Stati Uniti. Fu una vera rivoluzione tecnologica perché permetteva finalmente la famosa registrazione videomagnetica, ovvero i programmi venivano registrati e poi montati, per essere poi trasmessi. Precedentemente esistevano solo i programmi TV in diretta, con difficoltà di realizzazione importanti; oppure i film e i documentari montati solamente su pellicola. Erano gli anni del telecinema (le immagini della pellicola venivano trasformate in segnale elettrico atto alla trasmissione televisiva) e del vidigrafo (che serviva a registrare un segnale televisivo, ma solo sulla costosa pellicola cinematografica).

Nel 1960 nacque la trasmissione Tribuna elettorale, seguita l’anno successivo dalla Tribuna politica: gli italiani impararono a conoscere i volti dei leader di tutte le forze politiche. In radio debuttò il programma radiofonico Tutto il calcio minuto per minuto.

Sempre nel 1960 il Giappone passò alla Tv a colori. L’economia e la tecnologica nipponica ebbe modo di risollevarsi molto velocemente, pur colpita duramente da due bombe atomiche e dalla disfatta militare.

L’Italia e l’Europa rimasero invece “in bianco e nero”.

Negli anni sessanta, con il progresso dell’economia (grazie al miracolo economico) sempre più italiani ebbero la possibilità di acquistare i televisori, anche perché i prezzi diventarono più accessibili, per effetto soprattutto dello sviluppo di una industria televisiva nella penisola, che si affiancava a quella già presente, cioè quella radiofonica. Gli abbonamenti Tv passarono dai 24.000 del 1954 a oltre 6 milioni nel 1965. Grazie alla diffusione degli abbonamenti e degli apparati riceventi, ma soprattutto dalla grande popolarità riscontrata dagli storici programmi Rai come Non è mai troppo tardi condotto dal maestro Alberto Manzi, quasi un milione e mezzo di cittadini italiani riuscì a conseguire la licenza elementare. E in soli otto anni: dal 1960 al 1968, in un paese dove, prima, il tasso di analfabetismo era davvero elevato.  l’Unesco considerò Non è mai troppo tardi uno dei programmi più riusciti: venne riprodotto da 72 televisioni di tutto il mondo.

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La televisione in Italia, intesa come servizio pubblico, venne così pensata non solamente come occasione di intrattenimento, ma anche come strumento di educazione e informazione. In tal senso contribuì non solo a ridurre drasticamente l’analfabetismo, ma, in un paese dove si parlavano in tante zone solo i dialetti, contribuì fortemente a creare una lingua nazionale, e anche più di quanto fu in grado di fare la scuola. Era la cosiddetta “TV pedagogica”.

Ma torniamo alla Tv dagli inizi fino agli anni ‘60. Essa fu resa presto popolare dall’intrattenimento, ma l’informazione rimase la vetta d’eccellenza della Rai: oltre il 70% dei telespettatori seguiva il telegiornale. Gli sport più amati erano il ciclismo e il calcio, puntualmente illustrati da Rai (nacque anche La Domenica Sportiva).

Nel 1961, e fino al 1974, venne nominato direttore generale della Rai Ettore Bernabei, una carriera molto lunga che lasciò un segno determinante alla tv di Stato. La sua nomina fu tipicamente “politica” legata al nuovo corso della Democrazia Cristiana (DC), doveva accompagnare la Rai verso il centrosinistra. Bernabei vi aggiungerà una propria visione del servizio pubblico, in cui prendeva corpo un progetto culturale che, seppur di stampo cattolico, portava ad una modernizzazione graduale della società, nella quale la TV doveva farsi mediatrice tra la trasformazione socioeconomica del paese e il permanere dei valori tradizionali. A settembre 1961 Enzo Biagi venne nominato direttore del Telegiornale. Innovò profondamente il modello, con la cronaca nera, con i collegamenti internazionali e utilizzando anche i giornalisti della carta stampata. Ma si dimise presto dalla guida del Telegiornale, nell’agosto 1962, a causa delle pressioni politiche. Continuerà a collaborare con la RAI.

Il centrosinistra, ovvero l’ingresso del Partito Socialista Italiano al governo, nacque in fase embrionale con l’astensione del PSI nel terzo governo Fanfani (monocolore DC, con l’appoggio esterno del PSDI, PLI, PRI e con l’astensione del PSI e dei monarchici) a luglio 1960, dopo le dimissioni del governo Tambroni (DC, con appoggio esterno di monarchici e missini). Poi il centrosinistra si concretizzò in modo organico con l’ingresso formale del PSI nel successivo governo Moro (DC) del 1963 dopo il quarto governo Fanfani del 1962, formato da DC, PRI e PSDI e con l’appoggio esterno del PSI. E così, come la Rai veniva, e viene, considerata lo specchio dell’Italia, il 4 Novembre 1961 iniziarono le trasmissioni del secondo canale della RAI (oggi RAI2) con il Telegiornale del Secondo Programma (l’attuale TG2) diretto da Ugo Zatterin. Terminò l’egemonia della DC nelle nomine di vertice della RAI.

Era una Rai in cui Enzo Biagi lanciò il primo rotocalco televisivo della televisione italiana (RT Rotocalco Televisivo), in cui Sergio Zavoli creò Processo alla tappa, in cui Mario Soldati creò Viaggio nella valle del Po e in cui lavoravano Andrea Barbato o Angelo Guglielmi, che poi divenne storico direttore di Rai3, gli anni di Mike Bongiorno o di Renzo Arbore con Bandiera Gialla e Alto Gradimento insieme a Gianni Boncompagni, solo per citarne alcuni.

 

Nel 1962, ci fu il primo collegamento via satellite tra Italia e Stati Uniti, che segnò l’avvento della comunicazione tra i continenti e permettendo così di assistere in diretta agli eventi della storia contemporanea che venivano trasmessi, come lo sbarco del primo uomo sulla Luna nel 1969, che raccolse circa 500 milioni di spettatori.

All’inizio degli anni ‘60 si cominciarono in Italia le sperimentazioni della trasmissione televisiva a colori.

Trasmissioni televisive a colori che, nel 1967, vengono invece regolarmente avviate in Gran Bretagna, Germania e Francia (dopo Usa 1954 e Giappone 1960).

L’Italia rimarrà invece in una situazione di ritardo tecnologico a causa della mancanza di decisone politica. Con l’alibi dell’approfondimento sulla scelta del sistema di trasmissione a colori si tergiversò per troppi anni, producendo effetti molto negativi sull’industria italiana del settore.

Nei primi anni ’70 cominciarono le prime trasmissioni di Tv locali in Italia, ma anche la ripetizione sulla penisola di segnali di televisioni straniere, peraltro anche a colori. In una società italiana in cui sempre più si affermava il concetto di pluralità, si pose il problema del monopolio della RAI, che all’epoca esisteva.

A sciogliere il nodo ci pensò nel 1972 la Corte Costituzionale che legittimò la ripetizione in Italia di programmi stranieri (e dunque anche dei telegiornali, come quelli della TV Svizzera italiana) e che concesse ai privati la facoltà di trasmettere via cavo in ambito locale. Nel 1974 nacque Telemontecarlo (l’attuale LA7, così denominata dal 2001).

Il governo arrivò dunque nel 1975 ad una riforma della Rai (legge 103/75) che riaffermò, in ottemperanza alla sentenza della Corte Costituzionale, sia la illegittimità del suo monopolio in ambito locale e sia la possibilità di ripetizione via etere sul territorio italiano delle emittenti estere. Non solo, la riforma affermò il passaggio del controllo del servizio pubblico, e della società concessionaria, dal Governo italiano al Parlamento, con l’intento di garantire maggior pluralismo dell’informazione; nacque anche la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (comunemente nota come Commissione di Vigilanza Rai o Vigilanza Rai). Con la riforma del 1975 il Secondo programma assunse, dal 15 marzo 1976, la denominazione di Rete 2 e di conseguenza il Telegiornale del Secondo Programma diventò TG2. Il Telegiornale (quello storico del primo canale) nel frattempo era divenuto TG1. Inoltre la riforma stabilì di far nascere una terza rete televisiva RAI. Introdusse così il pluralismo delle idee e la concorrenza interna delle reti e delle testate. Si arrivò anche alla decisione del sistema PAL (dall’acronimo inglese Phase Alternating Line) come sistema di trasmissioni a colori.

Il monopolio della RAI via etere venne definitivamente cancellato nel 1976 e sempre dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 202 del 28 luglio 1976, autorizzò anche le trasmissioni via etere purché di ambito locale.

Il numero delle televisioni private ebbe una crescita esponenziale: diventarono 246 nel 1977 e 600 nel 1980.

Il primo febbraio 1977 finalmente anche la Rai iniziò regolari trasmissioni televisive a colori. Con 10 anni di ritardo sui principali paesi europei; 17 anni dopo il Giappone e 23 anni dopo gli Stati Uniti. La RAI sarebbe stata in grado di passare al colore già all’inizio degli anni ‘60, con la nascita del secondo canale. Da paese all’avanguardia europea nella sperimentazione della Tv a colori, divenne così il paese “di coda”. Con enorme danno dell’industria radiotelevisiva italiana. Come detto, furono le problematiche politiche a ritardare l’avvio del colore in Italia. Problematiche che derivavano da una allarmata e vasta polemica condotta parallelamente dal Partito Repubblicano Italiano (per ragioni di rigore economico), dalle industrie automobilistiche (che vedevano nel nuovo consumo durevole una pericolosa alternativa all’acquisto della seconda macchina) e, complessivamente, dalla carta stampata che intuì quanto il nuovo mezzo concorrente poteva essere rafforzato dall’introduzione del colore, soprattutto in ordine alla ripartizione del gettito pubblicitario.

Il primo gennaio 1977 si concluse, dopo vent’anni, la rubrica pubblicitaria Carosello.

Nel 1979, negli anni del cosiddetto compromesso storico nacque così la Terza Rete Rai (prevista nel 1975) e le trasmissioni televisive regionali con la nascita delle Sedi RAI (nel 1970 si era data attuazione alla Costituzione del 1948 facendo nascere, con ritardo, l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario).

La pluralità di informazione e la concorrenza tra le reti si concretizzò in RAI in una forma di lottizzazione con persone di fiducia della DC a RAI1, del PSI a RAI2 e del PCI a RAI3. In un contesto storico in cui si parlava di “centralità del Servizio pubblico nel panorama di pluralità dell’informazione e di concorrenza”.

Il Compromesso storico come sappiamo indica l’avvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, che iniziò con il governo monocolore DC di Solidarietà Nazionale, guidato da Giulio Andreotti nel 1976 con l’appoggio esterno del PCI, il quale poi entrò in maniera più organica, pur senza ministri.

Ma poi arrivarono gli anni ’80 che videro l’affermazione dei network di emittenti private. Nel 1980 nacque Canale 5 di Berlusconi, nel 1982 Rete4 della Mondadori e Italia 1 della Rusconi. Nel giro di un paio di anni entrambe vennero rilevate dalla Fininvest di Berlusconi.

Benché la sentenza della Corte costituzionale proibisse la trasmissione via etere a livello nazionale da parte di emittenti private, il divieto fu aggirato dalla Fininvest inviando a tutte le emittenti affiliate alla stessa rete cassette con i programmi registrati da trasmettere.

La programmazione di fatto diventò nazionale. Ma nel 1984 Canale 5, Rete 4 e Italia 1 vennero oscurate dai pretori di Roma, Torino e Pescara perché avevano illegittimamente trasmesso su tutto il territorio nazionale. Il Consiglio dei ministri del governo Craxi approvò un decreto che legalizzava in via provvisoria la cosiddetta “interconnessione funzionale”, cioè il metodo della cassetta registrata mandata in contemporanea in onda dalle varie emittenti sul territorio nazionale.  Il decreto assunse la locuzione del beneficiario e non del ministro o parlamentare proponente: “decreto Berlusconi”. Ma ci vollero altri due decreti (Berlusconi bis e Berlusconi ter) per legalizzarla a tempo indeterminato. Ovvero fino al 1990 quando, con la legge Mammì, si fotografò, legittimandola, la situazione esistente di duopolio. E si autorizzò la trasmissione nazionale perché “la diffusione di programmi radiofonici o televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha carattere di preminente interesse generale. E rappresentano principi fondamentali del sistema radiotelevisivo – che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati ai sensi della presente legge – il pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione”.

Si stabilì anche che ogni canale televisivo dovesse avere un proprio direttore di rete ed un telegiornale con relativo direttore responsabile. Perciò nel 1991 nacque Studio Aperto (il Tg di Italia1) e il Tg4. E l’anno seguente il TG5.

Nel 1990 partirono le sperimentazioni delle trasmissioni satellitari RAI, tramite RaiSat, riguardanti la radio ad alta definizione e i programmi televisivi in alta definizione e multilingua.

 

Gli effetti della guerra televisiva del duopolio RAI – Fininvest si sviluppò, dopo che diventò direttore generale della Rai Biagio Agnes nel 1982. Anno in cui l’amico e conterraneo Ciriaco De Mita diventava segretario della DC. Gli effetti si concretizzarono prima con l’esplosione dell’offerta di consumo televisivo, in dieci anni si passò da un’offerta televisiva complessiva di poco inferiore alle 6.000 ore annuali ad un monte ore sei volte superiore: 35.000 ore di trasmissioni tv all’anno. Parallelamente alla crescita dell’offerta televisiva crebbero le interruzioni pubblicitarie. In modo clamoroso crebbe anche il consumo di televisione. Inoltre il mutamento strutturale del panorama televisivo italiano investì anche il quadro dell’offerta dei generi televisivi dove ogni rete si orientò, in qualche modo, in un proprio campo, cercando una sorta di identità che la rendesse riconoscibile nel complesso del panorama dell’offerta televisiva. La complessità (ed i volumi) dell’offerta televisiva spinsero alla differenziazione, alla specializzazione. Il genere formativo/giornalistico vide la predominanza soprattutto di Rai3, ma anche di Rai1; la fiction maggiormente quella di Italia 1 e Canale 5, i film più di Rete4 e Rai2, ecc.

Un’ultima conseguenza della competizione tra servizio pubblico ed emittenza commerciale è stata quella che ha investito proprio i caratteri e le strategie dell’offerta televisiva della RAI. Nel 1981, la RAI copriva infatti i consumi televisivi del 61% dell’audience, contro il 39% delle televisioni private. L’anno successivo le stazioni commerciali accorciarono le distanze, arrivando al 45% dell’audience complessiva mentre la RAI scese al 55%. Il 1983 è stato l’anno del sorpasso, con la RAI scesa al 44% e le private salite fino al 56%. La sfida venne affrontata dal direttore generale Biagio Agnes in carica come detto dal 1982 e fino al 1990, tra i più longevi della tv pubblica. Sotto la sua direzione furono avviati nuovi servizi, come Televideo, vennero sperimentate nuove tecnologie, quali le trasmissioni via satellite e l’alta definizione e fu istituito il centro televisivo di Saxa Rubra a Roma. Dal 1983 mise in campo una strategia complessa, sfruttando fino in fondo la diretta, vista la superiore capacità tecnologica della Rai, e potenziando l’informazione (sia quella nei telegiornali sia quella nei vari programmi di rete). La RAI condusse una battaglia senza esclusione di colpi per assicurarsi personaggi, film e programmi. Ciò permise di mutare nuovamente la situazione. Nel 1989 la RAI aveva il 47% dell’audience complessiva, le reti Fininvest si assestavano al 37,3%, e le altre emittenti arrivavano al 15,2%. Al di là delle cifre, quel che contò furono le modificazioni che la “battaglia dell’ascolto” dovette introdurre nelle strategie e nell’identità del servizio pubblico televisivo.

Ma al di là degli oggettivi meriti dei conduttori di trasmissioni e delle loro strutture, delle redazioni e del relativo personale, la battaglia fu vinta anche grazie al personale tecnico-produttivo-artistico-dirigenziale (tecnici, registi, direttori di fotografia, produttori esecutivi, direttori di produzione, operatori di ripresa, montatori ecc. diventati anche dirigenti, capi struttura e così via) entrati in RAI per concorso e che ha sempre mantenuto alto e preciso lo spirito di servizio con la propria capacità e grande disponibilità. Difficilmente si incontra oggi un attaccamento all’azienda come ci fu, per tanti anni in Rai, da parte dei dipendenti.

febbraio del ’96 la Rai fece il suo ingresso ufficiale nella rete inaugurando il sito www.rai.it e a fine ’97 lanciò i primi tre canali tematici digitali via satellite, la cui sperimentazione era stata avviata all’inizio del ’90.

Nel 1997 con la legge Maccanico si ebbe una più completa formulazione di una normativa in materia di comunicazione televisiva oltre alle tematiche dell’antitrust, in conformità ai principi di pluralismo già richiamati dalla legge Mammì del 1990. Venne istituita una nuova Autority: l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. A fine anno la Rai lanciò i primi canali tematici via satellite.

Il 26 aprile 1999 venne aperto RaiNews24, il primo canale televisivo italiano di informazione in diretta 24 ore al giorno a diffusione nazionale.

Nel 1999, si crearono le condizioni per lo scorporo dalla RAI dell’allora reparto interno MIAF (Manutenzione Impianti Alta Frequenza). Venne creata la Divisione Trasmissione e Diffusione, che incorporò una New company (la NewCo TD), ideata per dare vita all’attuale Rai Way che divenne pienamente operativa a marzo 2000 per poi essere quotata in borsa nel 2014 (con un flottante parziale che lascia alla RAI il pacchetto azionario di maggioranza).

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Nel 2000, a causa della liquidazione della holding pubblica IRI, il 99,5% delle azioni passarono all’allora Ministero del Tesoro, oggi Ministero dell’economia e delle Finanze (Mef). Una anomalia perché di fatto il governo diventava possessore delle azioni RAI, in palese antitesi con la legge di riforma del 1975 che assegnava il controllo della governance al parlamento. Si cominciò allora a parlare della creazione di una fondazione che avesse il controllo della RAI, come “corpo intermedio e indipendente” dal governo. Solo nel 2007 l’allora ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni presentò un disegno di legge che intendeva riformare interamente il settore radiotelevisivo privato e pubblico, prevedendo anche il passaggio del controllo dell’azienda pubblica a una fondazione con una conseguente riformulazione del Consiglio di amministrazione RAI. Il disegno di legge non fu mai approvato.

Nel 2003 nacque SKY Italia dalla fusione di Telepiù e Stream.

Tra dicembre 2003 e inizio 2004 si avviarono in Italia le trasmissioni con il digitale terrestre. Lo spegnimento dei trasmettitori in analogico (switch-off) si completò nel 2012. L’offerta televisiva si moltiplicò e si svilupparono numerosi i canali tematici, già in parte presenti sul satellite.

Nel digitale terrestre entrarono anche SKY Italia (TV8), Discovery Italia (divisione del gruppo Warner Bros) con il canale Nove. Ci fu l’avvento e l’aumento della fruizione delle OTT “Over The Top” ovvero contenuti che vengono offerti tramite una connessione Internet, pertanto indipendenti dalle infrastrutture di trasmissione televisive, soprattutto senza i loro relativi alti costi ed arrivando facilmente, grazie alla “rete”, in tutto il mondo gratuitamente (per ora), come Netflix, Amazon Prime Video, Disney+ ecc.

Nel 2016 la Rai impostò la nascita di una media company con la piattaforma RaiPlay, poi disponibile

per Smart TV. Successivamente, nel dicembre 2017, seguì Raiplaysound.

La centralità del Servizio pubblico evocata negli anni ’80 rimase solo un vago ricordo, rispetto allo scenario così mutato in cui emergevano nuovi attori e nuove piattaforme multimediali e nuove modalità di fruizione. Il sesto Rapporto Auditel-Censis ci dice oggi che crescono sempre, così come crescevano allora, sia le connected tv e sia gli italiani che seguono contenuti audio e video sul web. Nel 2017 diventarono già il 27% degli spettatori totali, poco meno di 16 milioni; nel 2023 sono stati 26 milioni e 300.000, il 45,8% del totale.

Le sfide della Rai in un sistema televisivo italiano profondamente modificato avrebbero suggerito di partire da una riforma di sistema complessivo, proprio perché il sistema era completamente mutato. E invece fu modificata solo la governance Rai con l’intento di renderla più agile nell’affrontare le nuove sfide. Come visto, prima del 1975 la nomina del CdA della Rai era esclusivamente di competenza governativa.  Con la riforma del 1975 la governance Rai divenne di “indicazione parlamentare” e il Cda passò a 16 membri (6 membri erano eletti dal governo, e 10 dalla Commissione parlamentare di vigilanza, con voto a maggioranza dei due terzi, di cui 4 scelti sulla base di designazioni fatte dai Consigli regionali). Una successiva riforma nel 1985 (Governo Berlusconi III) fece in modo che tutti e 16 i membri del CdA fossero nominati dalla Commissione di vigilanza Rai.

Nel 1992 in piena Tangentopoli (come è noto, il sistema diffuso di corruzione in Italia nato con l’inchiesta cosiddetta Mani Pulite), le elezioni politiche portarono ad un aumento dell’astensione e al calo di consensi di quasi tutti i maggiori partiti, come la DC e il PSI, il quale nelle precedenti consultazioni aveva toccato i suoi massimi storici. Emersero invece le allora nuove formazioni: la Lega Nord e La Rete. Nel Parlamento si formò una maggioranza (DC, PSI, PSDI e PLI) molto risicata, che fu ancor più indebolita dal susseguirsi di arresti e di avvisi di garanzia dei magistrati di Mani Pulite. Cominciò già allora, nell’opinione generale, l’onda lunga dell’avversità alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti poiché – non avendo impedito la corruzione e il finanziamento illecito ai partiti – veniva percepita come priva di senso. Nelle successive elezioni locali dell’autunno 1992 sla la DC che il PSI persero la metà dei voti.

Per conseguire il pareggio di bilancio il governo Amato fece una manovra finanziaria da 93.000 miliardi di lire, allora la più importante dal dopoguerra. E nella notte di venerdì 10 luglio 1992 prese una decisione senza precedenti, ovvero applicò una patrimoniale attraverso il prelievo forzoso retroattivo del 6‰ dai conti correnti dei cittadini nelle banche italiane. La Lira italiana, così come la Sterlina inglese, era stata oggetto di una speculazione finanziaria.

Un anno difficile il 1992 che registrò anche gli attentati di stampo terroristico-mafioso con gli omicidi dei magistrati Falcone e Borsellino e degli agenti delle loro scorte.

Ad aprile 1993, il governo Ciampi subentrò all’uscente governo Amato. Essendo lo specchio dell’Italia, la crisi politico-economica, si riflesse anche sulla Rai, non era concepibile che di fronte a tanta corruzione nel sistema politico, così si pensava allora, ci fosse dallo stesso un controllo di vertice della RAI: a giugno 1993 una nuova riforma ne portò i membri del CDA, in via transitoria, a 5, tra l’altro nominati dai presidenti di Camera (all’epoca per prassi di un esponente dell’opposizione, poi cambiò) e Senato (di un esponente della maggioranza di governo) “tra figure di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti che si siano distinti in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali” (art.2 legge 25 giugno 1993 n.206). Fu la cosiddetta “RAI dei professori”. La RAI subì anche una crisi finanziaria che portò la governance a non poter pagare la tredicesima a fine anno ai dipendenti (si diceva appunto che la Rai è lo specchio dell’Italia).

Sempre nello stesso anno viene emanata la legge n. 515 del 10 dicembre che riguardava la “par condicio” sulle campagne elettorali che vietò la trasmissione degli spot promozionali e la diffusione di sondaggi elettorali nei quindici giorni antecedenti al voto.

Nel frattempo, con Tangentopoli, l’intero quadro politico in cui viene approvata la legge Mammì mutò profondamente con la scomparsa dei partiti tradizionali del dopoguerra, ovvero con la frantumazione della Democrazia Cristiana, la scomparsa del Partito Socialista, il cambiamento del Partito Comunista Italiano (PDS dal 1991). Ma soprattutto con la nascita di Forza Italia e l’avvio dell’avventura politica di Berlusconi. In un’arena politica così diversa e nuova – ed in un contesto sociale in cui aumentò il ruolo degli strumenti di comunicazione di massa (che, con l’ingresso di Berlusconi, segneranno l’inizio delle campagne moderne, caratterizzate dall’utilizzo delle strategie di marketing politico e dello storytelling) – si pose con forza la questione della concentrazione delle proprietà degli stessi mass media. E così la Corte costituzionale (sentenza n°420 del 1994) dichiarò l’illegittimità costituzionale a detenere il 25% delle reti nazionali fino al massimo di tre reti televisive (come in vigore allora nell’art. 15 comma quarto della legge Mammi) in quanto rappresentava una violazione del principio pluralistico citato all’articolo 21 della Costituzione. La legge Mammì infatti non risolveva i problemi di concentrazione poiché su 9 reti destinate ai privati (3 erano della RAI, per un totale di 12 reti disponibili) un unico soggetto che deteneva un terzo (33%) delle reti private superava il tetto (25%) fissato dalla legge Mammì stessa. Ed impediva anche l’ingresso di possibili nuovi attori privati che avrebbero garantito un maggiore pluralismo. La Consulta sollecitò quindi il legislatore a trovare una soluzione che doveva essere rispettosa dell’esigenza costituzionale di necessaria tutela del pluralismo delle voci, al cui fine seguiva il divieto per un unico soggetto del controllo di un quarto di tutte le reti nazionali (o un terzo di tutte le reti private in ambito nazionale) ed individuando nuovi limiti di concentrazione attuabili tramite riduzione come detto, oppure, se possibile grazie all’evoluzione tecnologica, ampliando il numero delle canali di trasmissione per ottenere lo stesso effetto (il concetto di pluralismo era peraltro già presente nell’ordinamento dell’Unione Europea).

In questo quadro si collocarono i referendum abrogativi del 1995 che riguardavano, tra gli altri temi, le concessioni televisive nazionali, le interruzioni pubblicitarie, la raccolta della pubblicità televisiva e la privatizzazione della Rai. Solo quest’ultimo tema, tra i referendum prima citati, vide prevalere il SI con 54,90%.

E così si arrivò – nel frattempo nel 1996 era nata Mediaset, società per azioni controllata da Fininvest – alla riforma del ministro Gasparri del 2004 (governo Berlusconi II) che prevedeva un processo di privatizzazione della RAI, attraverso una o più offerte pubbliche di acquisto (OPA), con un limite al possesso azionario atto a configurare una società ad azionariato diffuso (public company). Inoltre cambiarono le norme riguardanti la costituzione del Consiglio di amministrazione, aumentato da 5 a 9 membri (7 membri indicati dalla Commissione parlamentare di vigilanza e i restanti 2 membri, tra cui il presidente, indicati dal Ministero dell’economia e delle finanze.) Il presidente, nominato dal Cda all’interno dei suoi membri, doveva avere parere favorevole dei due terzi dei componenti della Commissione parlamentare di vigilanza. Si specificò che fossero norme transitorie valevoli fintantoché non si fosse completata la privatizzazione della RAI.

Per superare ed archiviare la prevista privatizzazione della Rai prevista dalla legge Gasparri – e per darle più capacità operativa con un assetto di tipo manageriale nel contesto così mutato del sistema televisivo italiano, come visto in precedenza – nel 2015 il governo Renzi del PD, in coalizione con Nuovo Centrodestra (NCD), Unione di Centro (UdC), Scelta Civica (SC), Partito Socialista Italiano, Democrazia Solidale (DemoS) e Centro Democratico (CD) varò una nuova legge (legge 28 dicembre 2015, n. 220) sulla governance della Rai e sul “servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale” (per la prima volta multimediale).

La legge snellì e portò a 7 i componenti del CDA, di cui 4 scelti da Camera e Senato, 2 dal Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze e 1, importante novità, dall’assemblea dei dipendenti. Dunque non vennero previste nomine da parte della Commissione parlamentare di vigilanza, con l’intento di svincolare la governance dall’impasse decisionale che la logica dei partiti spesso creava. Ma La riforma attribuì a Palazzo Chigi (governo) e al Ministero dell’economia e delle finanze, Mef (in quanto azionista di riferimento), un’influenza maggiore sulla “Tv di stato” rispetto a prima, perché il capo azienda (un amministratore delegato con più poteri significativi rispetto al precedente direttore generale) veniva nominato dal Consiglio di amministrazione su proposta in sostanza dal Ministro dell’economia e delle finanze (ovvero del governo). Un AD con potere di nomina dei dirigenti, meno che per le nomine editoriali che prevedevano invece il parere vincolante del Cda, con maggioranza dei due terzi. Venne introdotta anche la figura del presidente di garanzia, in quanto nominato dal Cda tra i suoi membri, ma con il parere favorevole di almeno due terzi dei della Commissione di vigilanza RAI. L’amministratore delegato però sottostava alla possibile revoca dal Cda sentito il parere (in sostanza) del ministro del Tesoro.

Ma prima che venisse approvata la nuova riforma della governance RAI (diventò legge il 28 dicembre 2015), nell’estate dello stesso anno, per scadenza del direttore generale della RAI Luigi Gubitosi, venne in sostanza indicato dal governo Renzi, segretario del PD in carica, il profilo di Antonio Campo dall’Orto, già vicepresidente esecutivo di Viacom International Media Networks. Con un Cda ancora di 9 membri della riforma Gasparri, il 6 agosto 2016 venne così nominato direttore generale Campo Dall’Orto e dal Cda, con il parere favorevole della Commissione di vigilanza, venne eletta presidente Monica Maggioni. A seguito dell’approvazione della nuova riforma della governance Campo Dall’Orto, pur mantenendo la carica di direttore generale, ottenne i poteri previsti per l’AD nella nuova riforma.

Poteri soggetti a revoca, come visto, dal Cda.

E così avvenne quando il così tanto atteso piano dell’informazione di razionalizzazione delle news proposto dal direttore editoriale per l’offerta informativa Rai, Carlo Verdelli, non venne approvata dal Cda. Così a gennaio 2017, prima si dimise Verdelli. Nel frattempo il piano dell’informazione venne rimandato al DG Campo Dall’Orto affinché lo rivedesse, sulla base delle indicazioni venute dalle critiche degli stessi consiglieri. Ma poi il Cda Rai bocciò di nuovo anche il piano rivisto dal Direttore generale, che non poteva subire modifiche sostanziali. Di fatto un’altra sfiducia che portò Campo Dall’Orto a rassegnare anch’egli le proprie dimissioni al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan il primo giugno 2017. Una scelta che venne successivamente formalizzata in Consiglio di amministrazione.  Dal 12 dicembre 2016 il governo Gentiloni (PD) era subentrato al governo Renzi (dopo la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016). Il 19 febbraio 2017 Renzi si era dimesso anche da segretario del PD. Carica che ritornò a ricoprire il 7 maggio 2017, dopo la reggenza provvisoria del già presidente del PD Matteo Orfini.

Con la riforma della governance doveva essere, come diceva il sottosegretario con delega alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli, una RAI «di servizio pubblico più moderna, più efficiente e trasparente» e che con un vero Ad e un Cda eletto dal Parlamento, continuava Giacomelli, «si rafforza il legame con le istituzioni e con il sistema-Paese, non con i partiti». Ma così non è stato. Dopo Campo dall’Orto venne nominato Mario Orfeo fino a naturale scadenza.

La legge di riforma della governance Rai entrò a tutti gli effetti in vigore nel 2018 con la nomina (governo Conte I) di Fabrizio Salini come AD. Il Cda diventò di 7 membri tra cui uno espresso dai dipendenti RAI (Riccardo Laganà, poi riconfermato nel 2021 e purtroppo prematuramente scomparso). Nel rinnovo del Cda del 2021 subentrò come AD Carlo Fuortes (governo Draghi), poi dimessosi, e a cui seguì a maggio 2023 la nomina di Roberto Sergio (governo Meloni), tutt’ora in vigore. Una legge, quella della riforma, che aveva buoni propositi e che ha ottenuto anche dei risultati concreti (nonostante fosse stato bocciato il piano sull’informazione) come la nascita di Raiplay, agli utili economici di esercizio, ai risultati di ascolto e di raccolta pubblicitaria incrementati. Tuttavia una legge pericolosa perché troppo sbilanciata nelle nomine di vertice sulle indicazioni del governo di turno piuttosto che dal Parlamento. E i governi cambiano, così come la composizione delle maggioranze di governo. E talvolta anche le idee dei governi stessi cambiano, come visto. D’altra parte finché non si farà una fondazione intermedia tra Rai e l’azionista che oggi è il Ministero dell’economia, ogni riforma farà fatica ad avere quel necessario distacco da quella politica da sempre intesa come spartizione di potere. E nel contempo avere anche una governance autorevole capace di affrontare, con poteri decisionali, sfide sempre più allargate, tutte nuove e sempre più immediate. Oltre alla necessaria e prioritaria riforma complessiva di sistema.

Tutto questo in un 2024 in cui ricorrono i 100 anni della nascita della Radio (ufficialmente inaugurata il 6 ottobre 1924) e i 70 della Tv in Italia. Ma anche i 150 anni dalla nascita di Guglielmo Marconi (nato a Bologna il 25 aprile 1874) a cui si deve lo sviluppo di un efficace sistema di telecomunicazione a distanza via onde radio (che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1909) e la cui evoluzione portò allo sviluppo appunto della radio e della televisione ed in generale di tutti i moderni sistemi e metodi di radiocomunicazione che utilizzano le comunicazioni senza fili.

Ultimo, ma non ultimo, il tema delle risorse certe della RAI. Necessarie per poter prevedere piani industriali seri. Oggi che il canone è stato portato a 70 euro (misura contenuta al comma 19 dell’articolo 1 della Legge di Bilancio 2024) e dopo che, nel 2016, il governo Renzi lo aveva già abbassato a 90 euro, avendo portato la sua riscossione nella bolletta elettrica, in modo da ridurre l’evasione per “pagare tutti per pagare meno” (il 41% in più delle famiglie versò l’imposta). Modalità di riscossione che non sarà più possibile a partire dal prossimo anno, perché l’Unione europea aveva poi deciso la cancellazione degli “oneri impropri” dai costi dell’energia. Perciò si parla di ulteriore copertura dello Stato dei 20 euro di canone mancanti per ogni abbonato (senza considerare la grande evasione del canone che si ripristinerà). E si parla anche di aumento del tetto della pubblicità per la RAI. Ma si parla anche della privatizzazione di un Rete Rai. Ovviamente sempre in forma più che approssimativa. Inoltre, non si considera che nel canone della RAI ci sono le risorse per il “Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione”. Diceva già l’ex AD Rai Fuortes nel 2022 su il Domani: «con il pagamento del canone attraverso il bollettino della luce è diminuita l’evasione e aumentato il gettito. Gli incassi aggiuntivi non sono stati però lasciati alla Rai, ma dirottati su un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. In totale sono 110 milioni di euro l’anno con i quali vengono beneficiate centinaia di televisioni e radio locali e un gruppo di periodici e giornali, da Dolomiten a Famiglia Cristiana e Avvenire, Manifesto, Secolo d’Italia, Italia Oggi, Libero e Il Foglio».

Sarà così ancora?

Intanto l’11 gennaio 2024 il ministro delle Imprese e Made in Italy (Sviluppo economico) Adolfo Urso ha cancellato dal testo del contratto di servizio della Rai (che delinea la missione della Rai dal 2023 al 2028) il limite del ricorso agli appalti e il limite delle produzioni esterne.

Non è un bel segnale.


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