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Quando l’imparzialità è un fatto di costume: il caso Degni e l’ipocrisia del dibattito su magistrati e politica

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Marcello Degni, consigliere della Corte dei conti, è al centro di una polemica scatenata da esponenti della maggioranza di governo, per aver criticato su Twitter il mancato ostruzionismo dell’opposizione alla legge di bilancio (“C’erano le condizioni per l’ostruzionismo e l’esercizio provvisorio. Potevamo farli sbavare di rabbia sulla cosiddetta manovra blindata e gli abbiamo invece fatto recitare Marinetti”).

Il tweet incriminato proviene dal profilo personale di Degni, che si descrive “economista, di sinistra, disilluso dai partiti italiani”, senza fare alcun riferimento al proprio ruolo di magistrato contabile.

Il profilo è attivo dal 2011, ma non risulta che le opinioni politiche di Degni avessero mai suscitato alcuna reazione o scandalo.

La Corte dei conti ha subito emanato un comunicato ufficiale, informando che le opinioni espresse dal magistrato “non rappresentano in alcun modo posizioni dell’Istituto” e che la questione sarebbe stata esaminata in via d’urgenza dal Consiglio di presidenza della Corte. Il Consiglio si è riunito il 4 gennaio scorso e ha disposto l’“immediata” trasmissione degli atti al Procuratore generale, competente per l’esercizio dell’azione disciplinare.

Secondo notizie di stampa, inoltre, l’Associazione Magistrati della Corte dei conti (AMCC) avrebbe deferito al proprio collegio dei probiviri il consigliere Degni, per la violazione del Codice deontologico, nella parte in cui prevede che “fermo il diritto alla piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni (…)”.

Non risultano, ad oggi, manifestazioni pubbliche di solidarietà all’interessato, colpevole di aver violato, in modo addirittura clamoroso, il precetto secondo il quale i magistrati devono necessariamente “apparire, oltre che essere, imparziali”.

Pierferdinando Casini, rispolverando un’espressione un po’ stucchevole, ma già utilizzata dal Ministro della Giustizia Nordio, ha ribadito che “i giudici devono essere come la moglie di Cesare”, al di sopra di ogni sospetto.

Di cosa, esattamente, non dovrebbero essere sospettabili i giudici?

Di avere delle idee politiche?

Dal caso Apostolico in poi, le opinioni dei giudici (casualmente: di sinistra) sono diventate il nuovo terreno di scontro tra magistratura e Governo.

A differenza del passato, il problema non sembra più essere quello dei magistrati che fanno politica, ma quello dei magistrati che parlano di politica, o scrivono, o partecipano a manifestazioni di piazza.

L’argomento secondo cui il dovere di apparire imparziale precluderebbe al magistrato qualsiasi manifestazione delle proprie idee politiche appare subito singolare, se solo si prende in considerazione il numero di magistrati che, dopo aver vissuto lunghe carriere politiche, tornano ad esercitare le funzioni giudiziarie.

Alcuni esempi meritano di essere ricordati.

Alfredo Mantovano, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, è entrato in Parlamento nel 1996 in quota Alleanza Nazionale, restandovi per diverse legislature. Rientrato in magistratura nel 2013, è stato giudice di Cassazione per quasi dieci anni, fino al suo nuovo incarico politico nel Governo Meloni.

Franco Frattini (1957-2022), già magistrato Tar e poi consigliere di Stato, ha avuto una lunga carriera politica, come parlamentare, ministro ed esponente di punta di Forza Italia, prima di tornare nei ranghi della magistratura amministrativa ed essere nominato, qualche anno più tardi, Presidente del Consiglio di Stato.

È davvero difficile immaginare che chi ha avuto un profilo pubblico di questo tipo, facendo attivamente politica, possa improvvisamente apparire imparziale quando torna a fare il giudice.

Eppure, non si ricordano polemiche, in occasione del rientro in servizio di questi e altri giudici prestati alla politica (a sinistra, come dimenticare Finocchiaro e Ingroia?).

Il sospetto è che l’aver ricoperto importanti incarichi elettivi o di governo ammanti le notissime opinioni politiche degli interessati di una sorta di sacralità.

Che si fatichi a riconoscere come, in una repubblica democratica e pluralista, le dichiarazioni rese da un deputato o da un ministro, a Porta a Porta o ad un congresso di partito, non hanno dignità inferiore a quelle proferite al microfono di un centro sociale occupato o durante una manifestazione di piazza.

Che la libertà di espressione del pensiero, riconosciuta a tutti dalla Costituzione, non è attribuita al magistrato dal collocamento in aspettativa per incarichi politici, né cessa al rientro in servizio.

Le norme deontologiche fanno salva (necessariamente) la libera espressione delle opinioni, ma aggiungono che il magistrato deve mostrare equilibrio e senso della misura nel manifestarle, per preservare la dignità dell’istituzione.

Si potrebbe osservare che, quando si tratta di opinioni politiche, il concetto di “equilibrio” – come quelli di “dignità”, “decoro”, “misura” – non è affatto neutro, e che non possono certamente essere considerate ammissibili solo le opinioni moderate nel senso di conservatrici.

Ma è forse sufficiente ricordare che l’imparzialità del magistrato non può essere ridotta a un fatto di costume, come sembra invece ritenere chi ripete ossessivamente il mantra “i giudici devono essere come la moglie di Cesare”. Un’adultera – almeno secondo la tradizione – da tutti nota come tale, ma il cui tradimento non poteva essere menzionato in pubblico dal marito, per il suo preciso interesse a mantenerla al di sopra di ogni sospetto.

Il 4 gennaio, il quotidiano Il Tempo titolava: “Quanti Degni popolano la Giustizia?”.

“E quanti ipocriti?”, si potrebbe rispondere.

*magistrato contabile


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