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Papa Francesco e il miraggio della pace

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Abbiamo ascoltato con straordinario interesse papa Francesco, ospite domenica sera da Fazio. Ne abbiamo apprezzato il garbo, la semplicità, la pacatezza, il modo spontaneo con cui porgeva al pubblico concetti densi di significato. Pace, umanità, gentilezza, amore per il prossimo, mano tesa ai migranti, ma anche una denuncia spietata dei mercanti di morte e delle loro logiche: questo il senso del discorso. Non a caso, questo pontefice, stimatissimo dall’opinione pubblica, non è per nulla amato dalle alte sfere. Lo detesta una parte della curia, la lobby delle armi, che vive di guerre e fomenta odio in ogni angolo del pianeta pur di continuare a ingrassare, tutti i potentati economici che ne temono la visione e l’afflato sociale, la destra retriva e trumpiana che si sta affermando pressoché ovunque, e che a giugno rischia di mettere a repentaglio l’Unione Europea, e chiunque tema il cambio di paradigma, sempre più indispensabile se non vogliamo che le disuguaglianze divorino quel che resta della società.

Mentre scriviamo, si apre a Davos l’ennesimo incontro dei padroni del mondo. E anche quest’anno assisteremo alle denunce inascoltate di organizzazioni come Oxfam, che continuano, meritoriamente, a battersi contro la concentrazione della ricchezza in poche mani: una piaga foriera non solo di squilibri sempre più insopportabili ma anche di conflitti che rischiano di travolgere un’Europa che si considera spettatrice e invece non lo è.

Come cantava Fabrizio De André, infatti, anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti. Siamo coinvolti nella carneficina ucraina, figlia della barbarie putiniana ma anche del pervicace rifiuto dei vertici europei, per non parlare di Biden, di prendere in considerazione qualsivoglia forma di dialogo, dileggiando chiunque indicasse la via del confronto e della tregua come l’unica strada perseguibile per evitare lo smembramento di un Paese ormai in ginocchio. Siamo coinvolti nella mattanza mediorientale, e qui è bene mettere in chiaro che abbiamo sempre condannato ogni forma di anti-semitismo ma riteniamo un dovere condannare, invece, il pessimo governo Netanyahu, il cui fondamentalismo sta generando a Gaza un massacro di proporzioni apocalittiche. Siamo coinvolti, infine, anche nello scenario di Taiwan, apparentemente lontano ma in realtà vicinissimo. Alle recenti elezioni ha vinto Lai, l’esponente più indipendentista, e non è dato sapere quali contromosse intenda prendere Pechino. Xi Jinping continua a rivendicare l’unità della Cina, dunque l’annessione di Taiwan senza se e senza ma, rivendicando la promessa di restituzione di “tutti i territori che il Giappone aveva rubato ai cinesi” formulata dalle potenze alleate durante la Conferenza del Cairo del ’43. Pensare oggi di servirsi di Taiwan per destabilizzare il Dragone sarebbe, dunque, un errore esiziale.

Sia chiaro che noi non nutriamo alcuna simpatia nei confronti di qualunque regime. Ma la geo-politica non è una questione di simpatia o di antipatia personale bensì, per l’appunto, di equilibri. E pensare di destabilizzare l’asse sino-russo, rafforzatosi in seguito all’esplosione della guerra in Ucraina e delle continue sanzioni inferte a Mosca dall’Unione Europea, vorrebbe dire mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’umanità.

Ha ragione, poi, chi afferma che stiamo assistendo alle conseguenze del fallimento epocale della globalizzazione liberista, con la rivolta di tutti i Sud del mondo contro un Occidente animato ancora da spirito predatorio ma in profonda crisi. Una crisi economica, politica, di classi dirigenti diffuse, demografica e persino culturale, con il progressivo venir meno di intellettuali degni di questo nome e pensatori critici in grado di ricoprire il ruolo di consiglieri e coscienze attive anziché di meri “yesmen”, non più guide ma di fatto esecutori di volontà altrui.

Non a caso, nei giorni scorsi abbiamo assistito con sgomento ai raid anglo-americani contro i ribelli Ḥūthī. Ora, non si tratta di parteggiare per questo o per quello ma di rendersi conto che l’Iran può anche permettersi di sacrificare Hamas ma non un universo cui è legato dalla comune appartenenza sciita. Questione politica e religiosa si intrecciano, quella militare vien da sé e il rischio è che un conflitto ormai ampiamente regionale possa trasformarsi in una guerra mondiale. E guai a credere che le guerre moderne, ad esempio di carattere commerciale o relativo alla cybersicurezza, siano meno aspre di quelle di un tempo. La paralisi energetica, i continui rincari dei prodotti alimentari, la sottrazione di dati preziosi, la profilazione degli utenti e la diffusione di balle in rete condizionano eccome l’esito delle elezioni, minando quel che resta delle nostre democrazie da tempo in guerra con se stesse.

Papa Francesco, pertanto, ancora una volta ci ha chiamato ad assumerci le nostre responsabilità. Ha parlato con dolcezza ma è stato durissimo. Ha espresso concetti forti in un linguaggio comprensibile a chiunque. Non va sottovalutato. Il rischio, difatti, è che il 2024 si trasformi in un punto di non ritorno. Già si tratta di uno spartiacque, di un anno decisivo che segna un prima e un dopo. Prendiamo atto che in futuro potremmo non avere più modo di occuparci di campagne elettorali e simili. Qualora gli orrori dovessero saldarsi e la ribellione dei dannati della globalizzazione dovesse trasformarsi in una sfida aperta a chi, con la distruzione dei diritti e della dignità umana, si è arricchito a dismisura, noi, che rappresentiamo poco più del 10 per cento della popolazione mondiale e abbiamo un’età media elevata, saremmo senz’altro destinati a soccombere. L’auspicio è che, sulle due sponde dell’Atlantico, qualcuno si renda conto che il multipolarismo non è un vezzo da anime belle ma l’unica possibilità che abbiamo per non essere spazzati via, nel contesto di una convivenza civile, a quel punto, pressoché impossibile. Le avvisaglie, ahinoi, sono pessime.


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