Un discorso toccante, un ricordo intimo e pieno di significato quello tenuto da Andrea Luchetta alla commemorazione dei colleghi Marco Luchetta (padre di Andrea), Alessandro Saša Ota e Dario D’Angelo a Mostar. Lo riportiamo integralmente di seguito.
“La prima volta che sono venuto in questo cortile era il 2007. Mi ha accompagnato Zlatko, il bambino che era insieme a papà, Dario e Sasa. Mentre camminavamo per i vicoli, mi sembrava che i palazzi si stessero chiudendo su di me, che la realtà stesse collassando. Avevo immaginato per 13 anni questo cortile. Mi sentivo fragile, disorientato. Ci ho messo delle ore per lasciar uscire il dolore. E quando finalmente ha vinto le barriere che avevo costruito, quando ho iniziato a sentirmi disperatamente solo, dalla notte è spuntato un cagnone nero. Mi ha fatto la guardia in silenzio e poi mi ha abbracciato. L’ho chiamato Stari, mi è rimasto al fianco per 15 anni. Non ho mai parlato pubblicamente di queste cose, detesto come le vicende più intime diventino chiacchiericcio, superficialità. Ma qui lo faccio perché so di essere in mezzo a fratelli, a persone che hanno sofferto quello che abbiamo sofferto noi, e spesso ben di peggio. Quando cammino per Mostar avverto una strana sensazione di familiarità. Mostar non è la città che ha tolto papà a mia mamma, a mia sorella Carolina e a me. E’ la città per cui papà ha sentito un’urgenza così profonda da fare quello che ha fatto. Ha provato un’empatia meravigliosamente umana e ha scelto di ascoltarla. Ha scelto di essere parte di una comunità. Una comunità che non ha declinazione etnica, religiosa, linguistica o qualsiasi altra idiozia ci siamo inventati per spararci addosso e derubarci. La stessa empatia che ha provato per le vittime musulmane, ne sono certo, la avrebbe provata per le vittime cattoliche, ortodosse, atee, agnostiche, buddhiste e tutto quello che volete. La sofferenza ovviamente non è una lavatrice. Non ci rende per forza uguali, non lava via le responsabilità. Sappiamo da che parte del Bulevarè partita la granata. Non sappiamo se fosse diretta a loro in quanto testimoni, o se fosse l’ennesimo tentativo di ammazzare qualche persona a caso. Non ci fa nessuna differenza. Chi ha sparato è un criminale. Chi gli ha dato una giustificazione ideologica per farlo non è degno di stare qui. Apprezziamo la presenza delle autorità oggi, sappiamo che non era scontata. E rivolgo loro un invito, a nome della mia famiglia: assumetevi la responsabilità della vostra presenza. Dopo le corone, dopo i discorsi, lavorate per liberare Mostar dalla cappa che ancora la opprime. Opponetevi a chi ha bisogno dell’odio per difendere il suo potere, in tutte le comunità, se non volete insultare la memoria delle persone che oggi ricordate. Mostar per me e mia sorella è nostro padre. Mostar è l’empatia che ci ha insegnato a provare. Mostar è tutto quello che ci rende diversi da chi non sa parlare di dolore. Da chi non lo vuole guardare, da chi lo ostenta, da chi lo manipola per costruirci sopra un potere meschino. Mostar sono gli uomini che hanno rifiutato di uccidere, i cittadini che hanno nascosto i perseguitati. Mostar è chi crede in una comune radice umana. Mostar è un cane silenzioso, che ti tiene in equilibrio quando ti manca la terra sotto i piedi. Mostar appartiene a loro, non a chi commercia veleno”.
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