Anno dopo anno con cerimonie pubbliche, incontri, programmi televisivi, radiofonici e teatrali coltiviamo la riflessione sul fenomeno della deportazione per preservare «la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa» così come recita il testo della legge istitutiva. Ma anno dopo anno col passare del tempo, con la scomparsa dei testimoni e il mutare del contesto politico emergono distorsioni, omissioni e ambiguità su cui conviene ragionare.
Il passato che il 27 gennaio si vorrebbe ricordare si trasforma in una specie di risorsa disponibile on demand, che ciascuno può costruirsi da sé, amputandone le componenti scomode, enfatizzandone altre. In particolare, nei momenti istituzionali, con la luminosa eccezione del discorso del presidente Mattarella, attento a sottolineare che «la storia dei campi di concentramento non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: ne rappresenta il fondamento condotto all’estremo», assistiamo ad un’operazione selettiva su quel materiale storico, che ne espunge un fondamentale e cospicuo capitolo.
A scomparire nel discorso pubblico sono quelli che nei Konzentration Lagern dovevano portare sulla divisa a strisce un “triangolo rosso” e cioè i politici, deportati perché riconosciuti oppositori, in armi o disarmati, del fascismo, risorto come Repubblica sociale italiana dopo l’8 settembre 1943 nell’Italia settentrionale sotto l’ala protettiva del suo brutale alleato, il Terzo Reich.
Ci sono altre vittime del sistema concentrazionario che sono spesso dimenticate – gli omosessuali, gli zingari, i testimoni di Geova– ma colpisce l’omissione ripetuta nei riguardi dei partigiani, degli antifascisti, dei renitenti, perchè oscura il ricordo della maggioranza della deportazione dall’Italia, uomini e donne finite nell’ingranaggio della repressione nazifascista per una scelta morale e/o politica. Parliamo di 23.826 italiani (22.204 uomini e 1.514 donne), secondo le ricerche non esaustive fin qui svolte, che si aggiungono ai 6806 cittadini italiani arrestati in Italia perché qualificati come “ebrei”. Non si tratta di fenomeni diversi ma di una stessa volontà totalitaria che persegue insieme la distruzione degli “ebrei” e degli oppositori in tutta Europa. E talvolta, come in Primo Levi e molti altri, nella stessa persona si trovano a coincidere il nemico ”ebreo” e l’ antifascista.
Potremmo domandarci perché i leader del governo attuale trovino parole di condanna senza appello per le leggi razziste e la deportazione nazifascista degli “ebrei”, ma glissino sui responsabili italiani della deportazione politica e sull’eredità democratica che queste vittime ci hanno lasciato.
Non è difficile intravvedere dietro questi silenzi una scelta interpretativa che è al tempo stesso una rivendicazione di identità politica. Si può criticare la legislazione razzista del 1938 perché la si considera una defaillance del regime, in ossequio all’alleato dell’Asse Roma-Berlino, ossia il Terzo Reich vero artefice del progetto genocidario antisemita. Ma spingersi fino a ricordare i deportati politici implicherebbe di riconoscere il valore della Resistenza antifascista e di fare i conti con la RSI, al contrario ben salda nel codice genetico di Fratelli d’Italia. Proprio come la fiamma che brucia al centro del loro simbolo.
Vale allora la pena di rammentare che la condanna del fascismo per la responsabilità delle «infami» leggi razziali non è una svolta avviata dalla presente leadership della Destra. Con più forza e meno ambiguità l’aveva pronunciata già Gianfranco Fini, fondatore e presidente di Alleanza Nazionale nel 2003 durante un viaggio in Israele. Quanto all’albero genealogico di AN, Fini aveva definito una formale discontinuità dal partito di Mussolini e dall’esperienza della RSI almeno 10 anni prima al Congresso di Fiuggi, con dichiarazioni che erano sembrate un punto di non ritorno. Ma così non era. La damnatio memoriae di Fini nell’attuale autobiografia di Fratelli d’Italia non è un caso. E’ la prova di un regresso verso radici politiche (RSI) e ispiratori (Almirante etc) che con la fine del MSI sembravano archiviate ma che restano invece inequivocabili nel DNA politico della Destra attuale.