Libertà di informazione o voyeurismo? Quando lo scoop vale più della deontologia

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Lasciamo da parte il discorso etico: ogni essere umano prende decisioni difficili e dolorose nel corso della sua esistenza e sarebbe il migliore dei mondi possibili se fossero sempre libere e consapevoli. Concentriamoci invece sul codice di condotta giornalistica, cioè su quelle regole precise, scritte, condivise che dovrebbero guidare ogni collega nel far una corretta informazione, senza mancare di rispetto, senza vittimizzare, senza stigmatizzare, senza ledere diritti, spettacolarizzare, giudicare, violare la privacy di chi e di cosa racconta.

Non sappiamo quale nome fosse stato scelto per lui dalla sua mamma, sappiamo però che è in buone condizioni di salute il bambino di sei mesi lasciato sabato 27 gennaio all’ospedale di Aprilia (Latina). Il personale sanitario lo ha trovato in una sala d’aspetto: era nel passeggino, ben coperto, con pannolini puliti e latte. Solo: la persona che è entrata spingendo il passeggino, lo ha poi lasciato incustodito e si è dileguata. I sanitari lo hanno notato e hanno iniziato a chiedere chi fosse la madre , senza però avere risposta. Dopo poco hanno capito: era stato abbandonato, affidato all’ospedale che subito lo ha preso in carico e ha allertato i carabinieri, che hanno avviato le indagini e interessato il Tribunale per i Minori. “L’ho visto nel passeggino, sorrideva”, racconta l’infermiera che lo ha visto per prima. L’amministrazione comunale e l’assessorato ai Servizi Sociali hanno monitorato la delicata situazione : il bambino è ben nutrito ed è stato affidato a una struttura perché possa avere la cura e le giuste attenzioni che la tenera età richiede.

Qui termina la doverosa cronaca di un fatto che, vista la congiuntura storica, dovrebbe rientrare nelle buone notizie: un bambino che sino a quel momento era stato ben accudito, è sano e salvo, chi lo ha lasciato lo ha fatto con cura e delicatezza, accertandosi che non gli accadesse nulla di grave. Doveroso anche che gli inquirenti siano partiti dall’analisi delle telecamere di videosorveglianza per comprendere la dinamica del fatto, come ad esempio verificare che non vi sia stata coercizione all’abbandono.  Ma, c’è un ma: quel video dell’ospedale è finito alla redazione del Tg1 e si è deciso di mandarlo in onda con la fascetta “esclusiva”, vantandolo come prezioso documento informativo. Tutto questo è materiale di accurata riflessione e autocritica per noi operatori d’informazione: nel video si vede una donna (che non sappiamo con certezza essere la mamma del bambino) con testa e viso coperti di cui si riconoscono bene solo cappotto e calzature, entrare nella sala d’aspetto, sedersi su una sedia qualche istante accanto al passeggino e poi andare via.

Cosa aggiunge quella sequenza di immagini all’informazione? Sui social, smossi dalla leva potente del web che ha consentito di riprodurre quel video all’infinito – in primis da parte di tutte le principali testate nazionali online poi di ridurlo in fotogrammi da ingrandire, ingigantire, vagliare, per carpire la marca del passeggino, l’abbigliamento del piccolo, il tipo di scarpe della donna, hanno scatenato disorientamento, fastidio, dissenso, stigma, leva su vaghe definizioni di maternità, di indigenza, di moralità, di individualismo miope.  

Solo quattro giorni fa, in una spettrale saletta stampa di Montecitorio, abbiamo sentito pronunciare le parole “L’aborto autorizza le donne ad uccidere”, messaggio promosso da due relatori del centro studio Machiavelli di Firenze durante una conferenza dal titolo “Biopoetica, breve critica filosofica all’aborto e all’eutanasia”, durata circa un’ora, dove i due relatori hanno chiesto che venga “riscritta” la legge 194 in senso “restrittivo”. Si è sostenuto anche che “il caso dello stupro è un finto dilemma morale,  perché il feto perde e la madre guadagna, in termini puramente logici. Nulla toglie che questo bambino venga poi dato in adozione, nulla toglie che questa madre possa portare avanti la sua vita con lui: questo non l’autorizza ad ucciderlo, perché di questo si tratta e bisogna aver il coraggio di usare le parole consone”.

E a proposito di parole e azioni consone, ancora una volta siamoproprio noi operatori di comunicazione a dover fare autocritica: chi realizza e diffonde video di questo genere sta davvero facendo informazione o risponde al famelico afflato di voyeurismo dell’era dei social?  

Sta facendo un servizio di pubblica utilità per la donna, per il bambino, per la società? Si poteva raccontare il fatto utilizzando immagini neutre, senza ledere il diritto della donna all’anonimato (garantito per legge) e senza rischiare di rendere riconoscibile il minore (tutelato dalla Carta di Treviso)?  In sostanza: di chi faceva l’interesse quel servizio al tg? Degli utenti a essere correttamente informati sulla titanica decisione che ci si trova a dover prendere prima di abbandonare un bambino? Perché, se l’obiettivo era allora propagandistico, potremmo aspettarci in futuro anche video di donne che si recano in ospedale per sottoporsi a un’interruzione volontaria di gravidanza (tutelata dalla legge 194) o a donne che escono dall’ospedale dopo averla effettuata?

Ricorderete come il Cimitero dei Feti che si trova al Flaminio a Roma è diventato un campo di battaglia tra il Garante privacy e AMA e Roma Capitale, sanzionati per diffusione illecita di dati e violazione di privacy nell’ottobre 2020. Tali multe sono stati disposte per aver diffuso i dati delle donne che avevano vissuto un’interruzione di gravidanza con tanto di indicazione su delle targhette apposite, presenti sulle sepolture dei feti presso il Cimitero dei Feti Flaminio. Il provvedimento da parte del Garante della privacy rimandava a due reati in particolare: diffusione illecita di dati personali e violazione della privacy.

Eppure, nel caotico rincorrersi di dettagli, domandarsi sulla giustezza o meno di quanto avvenuto, riflettere tra colleghe e colleghi su cosa, come, perché avrebbe agito ciascuna e ciascuno di noi, oggi è accaduto qualcosa ed è un giorno molto importante per i diritti delle donne: il CPO dell’Ordine nazionale dei Giornalisti ha espresso grande sconcerto per il servizio della Rai, mandato in onda “contravvenendo a quelle che sono le basi della deontologia professionale e della tutela della privacy. E ha chiesto ai consigli di disciplina territoriali competenti l’apertura di un procedimento disciplinare nei confronti di tutte le testate che hanno diffuso il video.

Anche la CPO FNSI, la CPO Usigrai e Giulia giornaliste hanno ritenuto “urgente una riflessione sull’ opportunità e le modalità di diffusione sui mezzi d’informazione, a maggior ragione quelli del servizio pubblico, di immagini che possano violare regole e anche sensibilità o scatenare commenti d’odio”.

Un atto dovuto, ma non scontato, per ristabilire i giusti criteri di dignità e per dare un segnale di vicinanza a tutte le donne che in un momento drammatico non possono e non devono temere di veder violate la libertà di autodeterminazione, la privacy e soprattutto il diritto di libera scelta. Che, se non tutelati in nome del sensazionalismo, degli ascolti e dei click, corrispondono a operare una grave forma di violenza.


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