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Le lettere di Topisio (sull’epistolario di Puccini)

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Ogni buon melomane sodale sa bene che il piacere della musica non è solo quello – appunto – della musica: anche quello offerto dalla storia dell’arte dei suoni, dalla biografia dei grandi compositori, dall’evolversi del pensiero musicale. L’appagamento della musica è insomma sovrapponibile a quello erogato dalla curiosità intellettuale verso i suoi fatti storici, anche verso l’osservazione delle sue strutture formali.

L’augurio dunque è che il nuovo anno sia punteggiato da buoni ascolti, ma anche da seducenti letture. Come quelle che si possono compiere calandosi in una recente meraviglia editoriale: l’Epistolario di Giacomo Puccini in via di pubblicazione, puntata dopo puntata, presso Olschki. Sono usciti i primi tre volumi, con le lettere dal 1877 al 1904, per un progetto che ne prevede tredici, più eventuali supplementi, visto che mentre si pubblica affiorano altri fondi, altri gruppi di lettere. Un progetto di ampie dimensioni relativo al fatto che – essendo Puccini figura di rilievo di cui i riceventi conservavano le lettere autografe – sono parecchie migliaia quelle che si sono salvate. È il destino delle carte, finché appunto ci saranno carte da scoprire e salvare; dopo, chissà.

Ora, un epistolario di un secolo fa è null’altro che l’ordinata collezione di quelle che per noi sono diventate le telefonate, con almeno un paio di rilevanti differenze. In primo luogo i nostri contatti verbali si perdono veloci nel nulla elettronico, mentre una lettera – affrancata e spedita – resta alla storia se custodita da chi l’ha ricevuta. In seconda istanza: telefonando si usa una maniera funzionale ma solitamente negligente, anche sciatta, certamente diversa dal fluire linguistico che si applica scrivendo, quando l’attenzione è diversa, come diverso è il finale risultato stilistico. Ne deriva che un epistolario incardina in un modo più “artistico”, ma anche più solido, il nerbo biografico e stilistico di una vita.

Non finirò mai di giudicare gli epistolari – assieme ai diari – tra le letture più emozionanti che ci siano. Se ad esempio spalanco il primo volume (lettere 1877-1896) e leggo il primo documento epistolare di Puccini a noi giunto – un ringraziamento a una commissione d’esame stilato il 21 luglio 1877 – vi scopro traccia di una precoce composizione data per dispersa, la cantata Cessate il suon dell’armi, riesumata in concerto nel 2003. Ma vale soffermarsi sulla seconda lettera, stilata il 10 novembre 1880 da Milano – dove il giovane Puccini si trovava per un esame al Conservatorio – alla madre Albina Magi a Lucca. È un documento in cui si percepisce bene il soffio concreto della vita d’epoca, a partire dalla maiuscola con cui ci si rivolgeva a un genitore: «Carissima Mamma, ho ricevuto la sua cartolina con risposta pagata e mi ha fatto molto piacere specialmente la risposta pagata perché ho la stoja». “Avere la stoja” significava “essere ridotto in miseria” ed ecco perché era così gradita una cartolina “con risposta pagata” (in pratica, una cartolina dotata di uno spazio bianco per la risposta e pronta per essere subito rispedita).

Ma il ventennio raccolto nel volume – lungo un processo di consolidamento di uno scrupoloso metodo di lavoro messo a punto con parecchie lettere scambiate con librettisti e interpreti – si conclude dopo il grande successo della Bohème: nel 1896 Puccini è già un compositore di risonanza internazionale che non soffre più di stoja, ma che ha però dovuto affrontare un curioso processo penale. Tra le sue passioni stava infatti la caccia, prevalentemente praticata sul Lago di Massaciuccoli e grazie al permesso del marchese proprietario della tenuta. Ora, nell’agosto 1894 s’era recato con un amico a cacciare senza alcun permesso in un laghetto nei pressi di Vecchiano; erano stati pizzicati ed entrambi denunciati, ma il processo si concluse a ottobre con l’assoluzione.

Ancora tanta vita sprigiona dalle lettere di queste stupende edizioni. Compio un salto di anni, entro nel terzo volume e mi soffermo su quanto Puccini scrisse al cognato l’8 agosto 1902, quando esclamò che era «successa una cosa grave in casa nostra. Elvira jersera ha sorpreso Tonio in camera di Alice in posizione…! Figurati che colpo!». Ecco un bel quadretto di vita, fatto di qualcosa che accade anche nelle migliori famiglie, perché potente è l’appello della libidine quand’essa diventa uzzolo incontenibile: il quindicenne Antonio – il figlio di Puccini nato dalla relazione clandestina con Elvira Bonturi – era stato visto a Torre del Lago nella camera della domestica Alice Manfredi a combinare le piccole (o forse grandi) sconcezze cui l’adolescenza, quando può, si abbandona. Come biasimare il ragazzo se anche Puccini ed Elvira, nelle lettere, si chiamano vezzosamente, ma anche eroticamente, Topisio e Topisia?

Ovviamente, una così ricca collezione ci cala anche nella fucina compositiva del musicista, grazie alle tante lettere indirizzate ai collaboratori. Durante la composizione di Madama Butterfly comunica ad esempio con i librettisti Illica e Giacosa, l’editore Giulio Ricordi, il direttore Leopoldo Mugnone e l’ammirata soprano Rosina Storchio, prima interprete di Cio-Cio-San e da Puccini reputata voce ideale per quel ruolo. E a proposito: essendo il terzo volume dell’epistolario dedicato agli anni 1902-1904, vi è ricompreso il tonfo della Butterfly alla Scala il 17 febbraio 1904, evento ostile da tempo preparato dagli oppositori del compositore. All’amico Camillo Bondi scrisse il giorno seguente: «Con animo triste ma forte ti dico che fu un vero linciaggio! Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, briachi d’odio! Ma la mia Butterfly rimane qual’è: l’opera più sentita e più suggestiva ch’io abbia concepito! E avrò la rivincita, vedrai, se la darò in un ambiente meno vasto e meno saturo di odi e di passioni», proponendosi di portare l’opera in una città più tranquilla, dotata di un teatro più piccolo.

Che infine fu il Teatro Grande di Brescia, dove il successivo 28 maggio la Butterfly fu messa in scena con un clamoroso successo, come senza mezzi termini scrisse due giorni dopo all’amico e confidente lucchese Alfredo Caselli, droghiere ma intellettuale di gusti fini: «Caro Alfredo, veramente l’hanno preso nel cimiero! Fu un successone vivo caldo – riparatore – 7 bis e 32 chiamate!». E come a volte accade, un evento negativo spalancò la porta a qualcosa di nodale per la storia dell’Opera: per riuscire vittorioso nella ripresa di Butterfly dopo il tonfo scaligero, Puccini rimaneggiò la partitura modificando la linea vocale nell’aria del suicidio della protagonista, ma chiese anche ai librettisti di scrivere una nuova romanza da far cantare al personaggio di Pinkerton: nacque così Addio, fiorito asil. Insomma, non tutto il male vien per nuocere: tra il tonfo scaligero e il trionfo bresciano si colloca una delle più celebri arie della storia del melodramma. E seguire i contorni di tutti questi accadimenti da un epistolario è esperienza di grande bellezza.

(Giacomo Puccini, Epistolario 1877-1904, voll. I-III, Firenze, Olschki)

Le lettere di Topisio (sull’epistolario di Puccini)


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