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Tra le grinfie di un mostro: i social

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Un uccellaccio. Così gli antichi romani immaginavano la Fama, la personificazione allegorica delle dicerie pubbliche. L’antenata dei nostri social, in pratica.  Essa veniva descritta come un immane e velocissimo mostro alato con tantissime piume, tantissimi occhi sotto le piume, tantissime orecchie, tantissime bocche con tantissime lingue. E così da questo momento, riflettendo sulla tragica vicenda  della signora Giovanna Pedretti, la titolare di una pizzeria nel lodigiano suicidatasi  probabilmente per non aver sopportato di essere finita al centro di una gogna mediatica, penserò a Facebook e a Instagram in questo modo.

Aveva una tromba la Fama, per gli antichi. Il suo nome deriva dal verbo latino fari, parlare. Infatti parlava, parlava. Diceva e mescolava, come fanno oggi Facebook e Instagram,  facta atque infecta, “ cose avvenute e cose non avvenute”. Godeva nell’usare anche in maniera distorta la parola, che per Aristotele è la nostra principale caratteristica, ciò che fonda la società, la famiglia, la città. Per gli antichi infatti la Fama si compiaceva di raccontare anche cose false, si rallegrava del timore che poteva suscitare. D’altra parte Virgilio nell’Eneide ci parla molto di lei e ci fa capire che spesso è legata alla vendetta. Fama era figlia della dea Terra, che quando la partorisce ha in odio tutte le altre divinità che avevano sconfitto i Titani, sempre figli suoi. Così Fama si sposta veloce tra gli uomini per vendicare la madre. Non dorme mai, di notte vola, di giorno spia dalla sommità di una torre. E quella Fama lì che urla, svergogna, smonta, segna col dito chi tradisce, chi ruba, chi mente, chi commette leggerezze grandi e piccole come forse ha fatto la signora Pedretti. Quella Fama lì è il nostro Facebook, il nostro Instagram, dove impariamo a gridare tutti, dove non possiamo aspettarci l’obiettività. Dove andiamo a caccia di sangue.

Perché il sangue attira. E rimane spesso sul terreno, dove passa la Fama con i suoi rumores latini. Che sono diventati “rumors”, pettegolezzi, in inglese. Ce lo racconta ancora una volta Virgilio, quando descrive la Fama che vola nelle città africane rette da pretendenti di Didone ai quali viene detto che la regina di Cartagine ha scelto il troiano Enea. Dice la verità la Fama, per carità. Ma racconta tutto in modo da suscitare gelosia, da diventare un pettegolezzo maligno che spinge all’ira.

Precede in maniera pericolosa anche Enea nel Lazio, la Fama. Il re Latino già sa che arriverà uno straniero che sposerà sua figlia Lavinia e fonderà una stirpe gloriosa. Ma la Fama solleva le sue donne, le spinge a seguire la regina Amata che vuole invece le nozze della figlia con il re dei Rutuli Turno, e insieme alla Furia rende tutte le donne del posto come folli, invasate. Spesso si diventa amens, senza mente, si ammattisce, a causa della Fama.

E spesso porta dolore, questa figlia della Terra. Virgilio la chiama anche empia, nell’Eneide. A volte si intromette in quello che è il destino stabilito dagli dei per gli uomini, il Fato, termine che deriva sempre dal verbo dire. Sa essere feroce, Fama. Proprio come i social usati in un certo modo da molti di noi. Che sui social impariamo a urlare, accettiamo di buon grado l’oscenità e la disumanità, castighiamo severamente le leggerezze che il più delle volte sono anche le nostre. Mica ci interessa la verità, a vedere. Anche se qualcuno pretende che in nome di quella si possano provocare frastuono e chiacchiericcio senza pensare alle conseguenze.

E allora di fonte a Fama con le sue innumerevoli bocche e lingue forse l’unica via d’uscita non è in Virgilio, troppo consapevole della mostruosità di questa divinità. Forse la strada da seguire a sorpresa è in Italo Calvino, nel suo Palomar. Che di lingue ne aveva una sola e se la mordeva tre volte prima di dire qualunque cosa. E se al terzo morso non era convinto, stava zitto. E così non diceva nulla per settimane e mesi


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