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“Il massacro a Gaza? Ha una scorta mediatica, siamo noi giornalisti”

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C’è un fantasma che si aggira nelle redazioni dei giornali e delle tv italiane. È la piccola lettera di un giornalista che collaborava con il Venerdì, settimanale in edicola col quotidiano Repubblica. Il suo nome è Raffaele Oriani, dice che non se la sente più e scrive “Care colleghe e cari colleghi, ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. È sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15)”.

“Sono 90 giorni che non capisco” continua Oriani. “Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.

In poche righe Oriani punta dritto al cuore di tutti i giornalisti italiani che sanno che c’è qualcosa che non funziona nel modo di raccontare la guerra di Gaza. Sanno ma non riescono a dirlo. Sanno che fare ogni giorno da tre mesi un pezzo sulla strage del 7 ottobre, cercando parenti delle vittime, ricostruendo ogni volta il meccanismo di quell’orrore non può eliminare quello che sta accadendo dall’8 di ottobre in poi. Sanno che ridurre alla espressione “disastrosa situazione umanitaria” in coda ad ogni pezzo la giornata a Gaza non può bastare. Sanno che non si può entrare nella striscia perché l’esercito non vuole ma che si potrebbe fare di più che utilizzare, quando va bene, qualche coraggiosa testimonianza locale. Sanno che andare a raccontare la Cisgiordania occupata serve eccome per capire, ma che c’è sempre una battaglia da fare in redazione perché il pezzo passi.

Sanno che tutte le notizie che riguardano il governo di Israele e i suoi piani per il dopo vengono titolate se parlano di moderazione e minimizzate quando i suoi ministri parlano di cacciare tutti i palestinesi da Gaza e mandarli in paesi africani amici. Sanno che è una fatica raccontare questa guerra e che una cosa è proprio difficile da far pubblicare: la ferocia che trasuda dai gesti e dalle parole di questo governo israeliano anche nel ribadire cose considerate ormai acquisite come il diritto ad esistere e difendersi.

Ogni giornalista che si occupa di Israele e Palestina combatte quotidianamente una sua battaglia per poter riferire quello che vede e quello che riesce a capire. E la prima vera prova di coscienza è decidere o no di andare a vedere quello succede nei territori occupati da Israele prima di farsi qualunque opinione. Poi viene tutto il resto, le analisi raffinate di geopolitica su come e quando può allargarsi la guerra nella regione, su chi è alleato di chi, su come si muoveranno le pedine sul complicato scacchiere del Medio Oriente, su come si combatte davvero il terrorismo nel mondo.

Ma la piccola lettera di Raffaele è un gigantesco punto interrogativo recapitato in tutte le redazioni: l’hanno letta quelli che combattono per la dignità di questo mestiere, quelli che la considerano lo sfogo di un’anima bella, quelli che sento spesso raccontare, a me che ora sono fuori dai telegiornali, che non sanno come fare a spiegare ai loro capi che non si può nascondere al mondo quello che succede a Gaza usando sempre il silenziatore delle parole e delle immagini. Perché prima o poi la realtà bussa alla porta e chiede di entrare.


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