Con l’uccisione di Mustafa Abu Thraya e Hamza Dahdouh, sale a 109 il numero dei giornalisti uccisi dal 7 ottobre dall’esercito israeliano.
Una vera e propria mattanza. Quella in atto a Gaza è una strage di operatori dell’informazione senza precedenti.
Oltre ai due reporter, nelle ultime ore ha perso la vita anche un portavoce di Hamas, Ali Salem Abu Ajwa, nipote di Ahmed Yassin, che fondò il gruppo armato palestinese nel 1987 di cui fu “ padre spirituale” fino al suo assassinio per mano di agenti di sicurezza di Israele nel 2004.
I primi due stavano viaggiando in macchina da Khan Yunis verso Rafah, mentre Ajwa è morto in un attacco aereo a Gaza. Il governo di Hamas ne ha dato notizia attraverso un comunicato con il quale sollecita “i sindacati della stampa e dei media, gli enti legali e le organizzazioni per i diritti umani a condannare questo crimine e a denunciare la sua reiterazione da parte dell’occupante”.
Hamza, poco più che ventenne, era il figlio del reporter di Al Jazeera, Wael Al-Dahdouh che qualche settimana fa aveva saputo in diretta, mentre era in collegamento da un ospedale appena bombardato, che una parte della sua famiglia era rimasta uccisa da una bomba che aveva colpito la loro casa.
Oltre ai nostri due colleghi, vanno aggiunte altre 16 vittime al bilancio dei morti causati dai bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono 22.835 le perdite dal 7 ottobre, la stragrande maggioranza civili. Più di 10 mila bambini.
“Non c’è niente di più duro da superare della perdita di una persona cara, soprattutto quando si tratta del figlio maggiore, il tesoro del cuore. Hamza non era solo una parte di me; lui era il mio tutto, l’anima della mia anima. Niente è più difficile del dolore della perdita, e quando questi dolori vengono inghiottiti dall’indifferenza, di volta in volta, le cose diventano ancora più difficili e intense. Ma cosa possiamo dire? Confidiamo in Dio, il migliore dei protettori” queste le parole di Wael Dahdouh, distrutto dalla perdita del figlio ma che non lascia il campo e continua a raccontare il conflitto.
“Questa è la nostra scelta, il nostra destino. Dobbiamo accettarlo qualunque cosa accada. Ed è il destino e la scelta di tutte le persone che stanno subendo perdite in questo conflitto, innumerevoli persone ogni giorno dicono addio ai loro cari… ogni giorno, ogni ora, ogni momento. Cos’altro si può fare? Nostro Signore, l’Onnipotente, unisce i nostri cuori e i cuori di tutte le persone che stanno soffrendo. Come giornalisti fobbiamo avere coraggio e forza, andare avanti. Continuare a fare il nostro mestiere per Hamza e tutti i martiri per i quali ci impegniamo a onorare il loro sacrifico”.
E poi la rivendicazione del ruolo dell’informazione. Della scelta di andare fino in fondo.
“Questa è la strada che abbiamo scelto volontariamente. Abbiamo dato e ricevuto molto. A volte paghiamo con il sangue. Perché questo è il nostro destino. Ma dobbiamo andare avanti”.
Wael Al-Dahdouh, come pochi altri ha coperto e sta coprendo la guerra a Gaza. A ottobre ha perso la moglie, altri due figli e un nipote in un bombardamento israeliano sul campo profughi di Al-Nuseirat, nel centro della Striscia. Nessuno di chi lo conosce riesce a capire dove trovi la forza di andare avanti dopo tutti i lutti che ha subito in questi mesi.
Il suo esempio è tra i messaggi più efficaci contro la guerra e sulla “necessità” di continuare a raccontarla.