Ci ha lasciati a 94 anni con la discrezione di sempre, Franco Catucci. Il suo funerale è stato fissato per il prossimo lunedi 15 alle ore 11, nella chiesa di San Lorenzo Fuori le Mura. In proposito, scherzando, perché la sua era una natura fortemente ludica, ma non del tutto, aveva raccomandato il minimo possibile di pubblicità. Prescrizioni assolute però non ne faceva. Salvo nel mestiere. Dove, non sempre con la risata un po’ nervosa con cui sfumava il proprio dissenso, criticava senza remissione superficialità e opportunismi. E non esclusivamente in politica. Nel giornalismo praticato personalmente per oltre cinquant’anni, soprattutto al TG1 della RAI-TV, non è mai incappato in fake-news, che considerava semplicemente menzogne; l’ansia per il video di certi colleghe/i per lui era sovrabbondanza di vanità. Pur non negando qualche tratto paradossale, per un uomo di televisione, alla propria ritrosia ad apparirvi.
Ci siamo conosciuti in America Latina a fine anni Sessanta/avvio dei Settanta del secolo scorso, periodo specialmente turbolento in quella parte del mondo. Io facevo allora il corrispondente de La Stampa. Più pragmatico del mio, il suo approccio alla notizia era nondimeno rigorosissimo e la non scontata coincidenza dei rispettivi punti di vista arricchiva reciprocamente la nostra informazione. La spontanea empatia di Franco, sommata all’esperienza di vita, gli permetteva inoltre di stabilire rapporti di confidenza anche con personaggi non propriamente facili da abbordare. Del presidente liberale Manuel Pastrana in Colombia era diventato amico personale, cosi come del cattolico cileno Patricio Aylwin, ma riusciva a farsi ricevere cordialmente anche alla residenza di Fidel Castro all’Avana. E a tutti costoro ha facilitato l’accesso di più d’un collega, italiani e non. La sua generosa eleganza si nutriva del gesto più opportuno, mai della benchè minima compiacenza.
Negli anni di Salvador Allende e poi con il sanguinoso colpo di stato del dittatore Pinochet, a Santiago del Cile la maggior parte dei giornalisti alloggiavamo all’hotel Carrera, accanto alla residenza presidenziale de La Moneda. Un giorno l’ho osservato mentre cercando di non farsi notare distribuiva laute mance a tutto il personale di servizio, dal consierge alla signora che riordinava la stanza. “Noi giochiamo fuori casa una partita non sempre facile, abbiamo spesso bisogno di cortesie, qualche benevolenza è meglio favorirla…”, mi spiegò poi. Quando qualche mese più tardi la polizia di Pinochet venne a cercarlo di notte in albergo perché i golpisti non erano contenti dei suoi servizi per il TG1, Catucci in stanza non c’era. La violenza, quella politica specialmente, lo sollecitava sempre a cercare di afferrarne le ragioni profonde. Pur infermo da tempo, ne stava ancora scrivendo quando è stato interrotto dall’improvviso ricovero in terapia intensiva.