Storie lontane. Si era agli albori del mandato britannico sulla Palestina storica, diciamo tra il 1917 e il 1918. Uno dei fondatori di Tel Aviv, Yosef Eliahu Slush, nei giorni in cui il generale Allenby conquistava la vicina Jaffa, si trovò a piangere la scomparsa della madre. Stabilitosi da qualche tempo nel villaggio arabo di Kafr Jamal, in virtù dei suoi ottimi rapporti con i nuovi concittadini palestinesi, chiese di poter acquistare uno spazio nel cimitero cittadino, per seppellire la madre. Gli anziani del villaggio gli dissero che, in quanto alla sepoltura, non c’era problema, mentre comprare la terra non sarebbe stato possibile. Da lì a poco Slush trasferì la salma nel cimitero ebraico di Jaffa.
Proprio a quel tempo, Londra stava dando il suo assenso alla costituzione di un focolare ebraico in Palestina. Le relazioni umane tra palestinesi ed «ebrei» erano ancora buone, come in precedenza, mentre la facoltà di disporre della terra cominciava a divenire un problema.
I cordiali rapporti tra Slush e i palestinesi, con la risposta sull’acquisto del terreno, ci danno dunque indicazioni forse inattese – perché la natura cosmopolita del Levante è dimenticata da tanti – importanti!
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Tali premesse non trovarono corrispondenze il 23 settembre 1928, cioè un decennio dopo, quando dinnanzi al muro del pianto comparve un separè, di quelli portatili per consentire a uomini e donne di pregare divisi, come prescritto. Molti assicurarono ai britannici, ormai potenza coloniale, che ciò era già accaduto anche in epoca ottomana, senza che fossero mai state poste obiezioni da parte islamica.
Ma con la preoccupazione per il sionismo ormai fortissima, la reazione palestinese fu diversa, molto diversa. Il timore era che si cominciasse da quel separé per costruire una sinagoga, mettendo così in discussione la proprietà islamica del sito. E così, di lì a breve, si verificarono gravi scontri, presto seguiti da altri ancora. Forse la potenza mandataria avrebbe dovuto prestare più attenzione, sin dai tempi del piccolo caso Slush.
Tom Segev, nel suo splendido libro One Palestine, complete racconta questo e tanto altro: come, ad esempio, in occasione di uno di tali scontri, dopo la morte di un ebreo, ci fu il ferimento di un palestinese; gli inglesi borbottarono che sarebbe stato meglio se fosse morto anche il secondo, per consentire loro di rimanere «equidistanti».
Colpisce che non si sia dato il giusto peso a quanto scrisse, nei mesi della disputa sul separè, Chaim Shalom Halevi: «Loro ci odiano e hanno ragione, perché anche noi li odiamo, di un odio mortale». E allora il caso Slush?
Dopo il 7 ottobre, proprio Tom Segev ha avuto modo di usare, in un’intervista, queste parole: «Evidentemente, sia gli israeliani sia i palestinesi non hanno sofferto abbastanza da capire che la pace è meglio della guerra, e il compromesso è meglio del disastro».
Io continuo a ricordare e a sostenere che i rapporti intercorsi tra Slush e gli anziani di Kafr Jamal testimoniano – ma è solo un esempio – che avrebbero potuto riuscirci, a costruire la pace: non c’era l’odio un secolo fa; dunque, non era un destino ineluttabile quello che è accaduto e accade ancora.
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Riscrivo, sul diario, la parola-chiave: compromesso! Questa nobile parola è oggetto di campagne di svilimento che attraversano ogni campo culturale. In tutto il mondo si parla contro la cultura del compromesso. Sembra sinonimo di cedimento o di «inciucio» coltivato nell’ombra. Ecco perché nel mondo arabo è emerso – e ritorna – il fronte del rifiuto: il rifiuto di ogni compromesso, perché ritenuto ingiusto.
Nella fattispecie c’è da capire chi si oppone, oggi, concretamente, al compromesso. Da una parte c’è certamente Hamas, il terrorismo. Ma dall’altra? Tutti definiscono terrorista l’estremista che uccise il premier israeliano della pace, Yitzhack Rabin. È tutto? Ci sono anche i coloni che non fanno mistero di seguire Baruch Goldstein, il terrorista che nel 1994 fece strage di palestinesi in una moschea ad Hebron.
Accanto a questi, poi, si sa di frange davvero violente. Ma il problema è complesso: lo possiamo definire non soluzionismo, ossia un genere di politica che non intende risolvere il problema stesso. Il non soluzionismo non potrebbe mai accettare uno Stato con due etnie (e almeno tre religioni), perché sa che la maggioranza numerica sarebbe palestinese. Ma non vuole neppure uno Stato palestinese accanto ad Israele. E, allora, cosa vuole?
Il non soluzionismo favorisce dal 1967 la colonizzazione della Cisgiordania per presidiare il territorio e quindi – si sostiene – la «sicurezza». Questa teoria ha portato a sostenere il governo di Hamas a Gaza – anche con l’accesso a finanziamenti – per impedire che l’Autorità Palestinese unisse, con sé, sia la Cisgiordania che Gaza. Netanyahu esprime, in concreto, la politica non soluzionista.
I palestinesi dovrebbero chiedersi però come possano essere caduti nel tranello, dando a Cisgiordania e a Gaza due governi diversi, per loro scelta: uno all’Autorità Palestinese e uno ad Hamas.
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Come fare, ora, per dare alla guerra uno sbocco che non sia perimetrato dal non soluzionismo, che rende ogni sbocco, di fatto, impossibile? Può un disastro così grande aprire la strada, ora, al compromesso? Da un male orribile – il pogrom del 7 ottobre e la successiva, sistematica, terribile, distruzione di Gaza – potrà mai affiorare qualcosa di positivo? È molto difficile.
Israeliani e palestinesi dovrebbero convincersi che l’odio non può essere un destino. Solo l’idea di un futuro migliore per entrambi potrebbe portare ad un tale convincimento. Mentre questo linguaggio – che è il linguaggio del futuro e della speranza – continuamente viene soppiantato dal linguaggio della «sicurezza», da una parte e da quello della «giustizia», dall’altra, come se non fossero nei desideri di tutti sia la sicurezza che la giustizia. Ma una sicurezza senza un futuro spalancato davanti e una giustizia ideologica, assoluta, non portano, evidentemente, da nessuna parte.
Ci troviamo quindi, oggi, di fronte ad un Netanyahu che respinge nettamente la proposta a cui starebbero lavorando i sauditi, avallata – come sembra – dagli americani, e che prevederebbe, assieme al rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco, la creazione di uno Stato palestinese e la firma di un trattato regionale di pace tra Paesi arabi e Israele.
Un tale piano vorrebbe descrivere un futuro diverso, nuovo, che potrebbe un giorno giungere alla creazione di una Lega del Levante, in cui potrebbero sedere, insieme, arabi e israeliani, quale traguardo finale: nulla – culturalmente – osterebbe. Gli ebrei sono stati per secoli anche una parte, ben significativa, nella cultura araba.
Ma certamente il terrorismo non finirebbe d’incanto. I filoiraniani si opporrebbero: la Siria in primis e, penso, pure il Libano sequestrato da Hezbollah. Eppure, ciò significherebbe cominciare a procedere – dalla stessa parte – tra israeliani e palestinesi, per creare uno Stato palestinese inserito con Israele nei piani di sviluppo regionale.
Terrorismo e non soluzionismo, invece, ancora, dividono. Le manifestazioni israeliane di queste ore per chiedere le dimissioni del governo dicono che c’è un gran bisogno di creare una prospettiva, verso la soluzione del problema.
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