Si apre oggi a Milano, all’università statale, il convegno fondativo della società scientifica italiana per lo studio delle mafie e antimafie (Sisma) per iniziativa di Nando dalla Chiesa, che la presiede. Scientifica, è la chiave di lettura di questa iniziativa che realmente apre una strada nuova nell’analisi, e quindi nella battaglia contro tutte le mafie.
Perché questa scelta professor Dalla Chiesa?
Pensiamo all’ultimo secolo:nessuna regione ha avuto più scrittori importanti della Sicilia, eppure nessuno di loro ha raccontato la mafia (eccezione:Il giorno della civetta). L’università ha praticamente ignorato il fenomeno per decenni. C’è un vuoto culturale da riempire. Abbiamo voluto coinvolgere proprio tutto il mondo universitario per dare peso scientifico al progetto, in una chiave del tutto interdisciplinare, non soltanto la sociologia, ma la storia, l’economia, l’urbanistica, la conoscenza del territorio, la gestione dei rifiuti. Tutte le situazioni. E l’obiettivo è proprio quello di dare valore scientifico alle nostre ricerche che sono andate a indagare le realtà, le azioni, la cultura che è alla base del fenomeno mafioso.
Ci sono carenze anche sulla didattica riguardo al fenomeno delle mafie?
Certamente purtroppo è così. Il primo esempio di un testo didattico fu realizzato da un preside di un liceo di Palermo nel 1987, l’anno dell’inizio del maxi processo istruito da Falcone e Borsellino. Una vera antologia. Ma nello stesso periodo fu pubblicato da Einaudi Per la serie “Storia d’Italia, le regioni” il volume di Giuseppe Giarrizzo dal titolo “Sicilia” che non fa alcun cenno alla mafia moderna e contemporanea. Tuttavia nelle scuole quell’anno fu uno spartiacque, da quel momento di mafia nelle scuole italiane si è parlato. Ma incredibilmente non è stato così per l’università.
Quali sono le fonti delle vostre ricerche?
Non solo e non tanto gli atti giudiziari. I traumi del’82-83 e ancora di più quelli di dieci anni dopo hanno creato una coscienza allargata sul dramma della mafia. Ma l’analisi degli atti parlamentari dimostra, ad esempio, come più dei documenti giudiziari siano stati utilizzati le informazioni, i materiali forniti dai militanti di partito, da semplici cittadini, da quella che si chiamava società civile. E’ evidente che non si può prescindere dal materiale giudiziario e del resto non è neppure compito della magistratura ricostruire la storia della mafia, anche se alcune sentenze sembrano a volte un po’ bizzarre.
Possiamo dire che le sentenze non bastano a far comprendere il fenomeno mafioso?
Fino ad oggi le sentenze sono una fonte fondamentale ma non univoca. Del resto noi studiosi ci sentiamo in questo momento minacciati come i magistrati dalle nuove norme del governo e dal rischio che la stampa possa informare di meno sui fenomeni mafiosi. Le intercettazioni sono decisive in questo senso, il contesto in cui matura la criminalità necessita di capire come si forma quel tipo di ragionamento e poi di comportamento. Le sentenze raccontano la rilevanza penale di questi comportamenti, ma per combattere a tutto campo la mafia bisogna costruire un terreno culturale complessivo su cui lavorare, una conoscenza diffusa, una sensibilità comune.
Per questo non si possono accettare i canoni di settorializzazione della cultura, la cultura deve essere interdisciplinare e generalizzata per costruire un contesto favorevole alla battaglia contro la mafia, ci vogliono specializzazioni reali e specifiche unite a conoscenza storica e sociale.
Noi vogliamo aprire anche il nostro modo e la possibilità di fare ricerche e di rafforzare le competenze: non si possono accettare canoni di organizzazione dall’alto della cultura.
Nella storia tutti i movimenti collettivi di cambiamento sono maturati all’interno dell’università ma per la mafia finora non è stato così, è maturato tutto di più all’interno della scuola. E’ la sfida che ci poniamo con questa nuova associazione che comincia il suo percorso in assenza di un contesto favorevole ma con l’obiettivo forte di favorire una coscienza allargata contro tutte le mafie.