È morto questa notte a Torino, all’età di 105 anni, Bruno Segre, partigiano, avvocato e giornalista, figura centrale della Resistenza italiana. A darne notizia è la famiglia, proprio in occasione del Giorno della Memoria.
Allievo di Luigi Einaudi, divenne avvocato nel 1940 ma non poté esercitare in quanto ebreo. Nel 1942 viene arrestato per disfattismo politico, mentre suo padre viene internato in Abruzzo. Nel settembre 1944, a Torino, Segre tenta di sfuggire all’arresto da parte della Guardia Nazionale Repubblicana. Ne nasce una sparatoria dalla quale si salva grazie al portasigarette di metallo che portava nella giacca, che ferma la corsa di un proiettile sparato dal “gorilla fascista”. Catturato e rinchiuso nella caserma di via Asti e poi trasferito nelle carceri giudiziarie Le Nuove, da dove fortunosamente riesce a uscire qualche tempo dopo, pagando un funzionario dell’U.P.I. Nell’estate del 1946 scriverà un memoriale dedicato alle vicende di questa esperienza di prigionia, Quelli di via Asti, che si deciderà a pubblicare solo nel 2013. Entra a far parte della Resistenza armata arruolandosi nella 1ª divisione alpina “Giustizia e Libertà” a Pradleves (Val Grana) e prende parte alla liberazione di Caraglio.
Dal 1991 al 2007 ha presieduto l’Associazione «Amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam», a supporto del villaggio cooperativo abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, fondato nel 1972 da Bruno Hussar e situato a Ovest di Gerusalemme. Un’oasi di pace.
Per celebrarlo ri-pubblichiamo un articolo con le memorie inviateci (Riforma.it) da Bruno Segre e che ripercorrono una parte di storia delle comunità ebraiche emersa anche in occasione della preziosa testimonianza nata dall’incontro con i finalisti del Premio Morrione.
Dall’Eiar alla Rai
di Bruno Segre
Quando la Radio in Italia si chiamava EIAR e non ancora RAI, accadevano episodi significativi. L’annunciatore citò un ritornello patriottico del Risorgimento: “E la bandiera dei tre colori – è sempre stata la più bella – noi vogliamo sempre quella – noi vogliamo…” A questo punto sostituì le parole “noi vogliamo la libertà” con “noi vogliamo romanità”. Il mito fascista alla romanità non c’entrava per nulla con la bandiera tricolore, ma palesava la consapevolezza dell’anelito di libertà sempre vivo negli italiani.
L’ignoranza che il duce mostrava verso la civiltà della Roma antica era dimostrata anche dal dono di statue di Giulio Cesare e Ottaviano Augusto ad alcune città ed esposte nelle piazze, forse ignorando che il dittatore Giulio Cesare fu ucciso dai congiurati quando pretendeva di diventare “imperator” dei romani.
Ma l’ignoranza della Storia era sovrastata dall’ambizione più sfrenata, che si manifestava nel linguaggio aggressivo, nella curiosa varietà di abbigliamenti, nelle contraddizioni continue, nella pluralità di imprese sportive (scherma, equitazione, aeronautica, automobilismo, ecc.). Longanesi coniò il motto “Mussolini ha sempre ragione” forse per incensarlo, forse per dileggiarlo.
Nella tarda estate del 1924 assistetti alla pubblica distribuzione di fotografie dell’On. Matteotti, assassinato da una squadraccia fascista i cui sicari furono presto scarcerati dall’amnistia del 31 luglio 1925.
Nello stesso 1925 in Via Bertolotti angolo Piazza Solferino vidi un bivacco di carabinieri attorno all’edificio che ospitava LA STAMPA: le mura dell’edificio erano annerite dalle fiamme dell’incendio appiccato dai fascisti contro il quotidiano.
Si verificò allora una continua persecuzione giornalistica: per 15 giorni l’”Avanti!”, “La Giustizia”, “L’Unità”, “Il Lavoro”, “Il Mondo”, “La Voce Repubblicana”, “Il Popolo”, “Il Becco Giallo”, non poterono uscire. In seguito furono sequestrati per tre o quattro volte per settimane.
Infine la legge 25 novembre 1926 soppresse la libertà di stampa; furono sciolti tutti i Partiti tranne il PNF , introdotta la pena di morte, riformata l’Amministrazione locale, sostituiti i Sindacati con le Corporazioni, decaduti i deputati, istituito il Tribunale Speciale formato da ufficiali della Milizia e delle Forze Armate, organizzato nelle isole il confino di polizia, fondato un nuovo sistema elettorale, creato il Gran Consiglio del fascismo, ecc.
Al regime aderirono la borghesia agraria, i lavoratori della terra che aspiravano alla proprietà e successivamente i ceti medi che si consideravano i legittimi rappresentanti della nuova Italia dopo scioperi generali di occupazione delle fabbriche, proteste autorevoli (famoso “il manifesto degli intellettuali antifascisti” scritto da Benedetto Croce e firmato da centinaia di personaggi). L’opposizione fu stroncata ovunque, isolata nell’attività propagandistica dei Partiti rifugiatisi in Francia e nei gruppi clandestini in Svizzera, Belgio e in molti Paesi extra europei (Turchia, USA, Argentina, Brasile, Cile, ecc.).
All’interno, esclusi pochi irriducibili finiti in carcere o al confino, l’unica opposizione diffusissima furono le barzellette antifasciste (ad esempio quella di un incontro tra Mussolini e D’Annunzio che così si salutarono: “Salve o alato fante, salve o lesto fante…”)
Il duce del fascismo si illuse di vincere sempre, aggredendo l’Etiopia, l’Albania, la Grecia, la Spagna libera, la Francia e l’Inghilterra alleandosi all’infido camerata tedesco, poi tradito con l’armistizio segreto dell’8 settembre 1943 e dalla dichiarazione di guerra alla Germania il 13 ottobre 1943.
Il fascismo fu una dittatura totalitaria espansionista a cui ora si collegano idealmente piccoli gruppi associati in “Forza Nuova”, “Casa Pound” ecc. che indossano la camicia nera, fanno il saluto romano, cantano “Giovinezza” e “Faccetta nera”, consumano il rancio e vanno in pellegrinaggio a Predappio per rendere omaggio alla tomba di Mussolini. (parafrasando la quartina dedicata al Ministro delle Finanze Quintino Sella: “Attenzione, o pellegrino a quest’urna non ti accosta, se si sveglia l’inquilino paghi subito l’imposta” fu concepita quest’altra “Pellegrino ben vicino non ti accosta a questo avello, se si sveglia l’inquilino usa l’olio e il manganello”.
Nel 1932 in una lunga intervista concessa al giornalista tedesco Emil Ludwig (che poi la pubblicò nel libro “Colloqui con Mussolini” edito da Mondadori) il duce elogiò gli ebrei che avevano dato all’Italia capi di governo, ministri, scienziati, scrittori. Nel 1938, per allinearsi all’alleato nazista, inaugurò un antisemitismo contro i 48.000 ebrei italiani, in talune parti più rigoroso di quello tedesco. Tra l’indifferenza del popolo si susseguirono dolorosi eventi: il clamoroso suicidio dell’editore Formiggini e di molte altre vittime, l’esilio degli ebrei ricchi in Paesi lontani, l’espulsione degli ebrei dalle scuole, dalle cariche pubbliche, dagli impieghi e dalle professioni. Cominciò il triste spettacolo di inutili conversioni religiose, il mercato dei beni immobiliari e delle aziende, la campagna diffamatoria della rivista “La difesa della razza” nella cui redazione lavorava Giorgio Almirante, futuro fondatore del M.S.I. (che significava Movimento Sociale Italiano ed anche Mussolini Sei Immortale). Ben pochi gli oppositori. Ricordo un sonetto satirico di Trilussa, intitolato “L’affare della razza” (dedicato ai perseguitati che cambiavano il proprio cognome), un mio saggio sull’inesistenza di una razza italiana pubblicato dalla rivista “L’Igiene e la Vita” diretta dall’ex-deputato socialista, Giulio Casalini, subito soppressa dal regime e qualche altro isolato dissenso.
La legislazione antisemita risultava complicata e talora paradossale. Io stesso ne fui una singolare vittima: da mio padre ebreo e mia madre cattolica, non praticanti, nacquero tre figli, di cui i due minori furono iscritti alla Comunità ebraica e ne frequentarono le scuole ed uno, cioè io stesso, fieramente privo di religione. Ebbene mia madre ottenne da un sacerdote compiacente due certificati di antico battesimo, per cui i miei due fratelli vennero classificati di razza ariana, mentre io, mai iscritto a Comunità, fui dichiarato ebreo. Dunque dagli stessi genitori sarebbero nati due figli ariani e uno ebreo.
Tale qualifica, se mi permise di concludere il corso di studi universitari (mentre i numerosi studenti tedeschi che frequentavano la Facoltà di medicina furono espulsi immediatamente), mi impedì di iscrivermi per una seconda laurea.
Il giorno dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna (10 giugno 1940) mio padre fu inviato al confino, in un paesino dell’Abruzzo, ove furono riuniti molti personaggi torinesi da Donato Bachi a Natalia Ginzburg. Io poi in agosto raggiunsi mio padre al confino di Rocca di Mezzo (tra Avezzano e l’Aquila).
A Torino ripresi il lavoro giornalistico retribuito pubblicando novelle ed articoli firmando con lo pseudonimo Sicor. Spesso aggiungevo, con il gessetto sui muri, una “O” al “viva il re”, che così diventava “reo”, in realtà traditore perché all’atto di ascendere al trono, nel discorso della Corona in Parlamento, aveva giurato di rispettare lo Statuto concesso da re Carlo Alberto nel marzo 1848. Il re “sciaboletta” e la bella regina venivano satireggiati dal popolo, l’uno per la bassa statura e l’altra per l’origine nel Montenegro, con i nomi di due battaglie del Risorgimento “Curtatone” e “Montanara”. Inoltre il re aveva conferito al duce il supremo Ordine Cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro e poi era andato a Predappio per un omaggio alla casa dov’era nato Mussolini.
Finii in carcere nel settembre 1942 per disfattismo politico e vi rimasi circa 4 mesi durante il più gelido inverno del secolo, che bloccò l’avanzata dei carri armati tedeschi in Russia. La Commissione prefettizia si limitò ad infliggermi l’ammonizione nella seduta del 1° maggio, allorché io infilai una margherita nell’asola della giacca. Qualcuno capì ma tacque.
Assistetti, il 10 settembre 1943, mentre mi trovavo a Porta Nuova, ad una sfilata di bersaglieri condotti dalle SS alla stazione per essere deportati nei lager e pure ad un drammatico episodio allorché alcuni giovani sconsiderati lanciarono da un furgone pietre contro i soldati tedeschi che con una sventagliata di mitra li uccisero.
Poi mi trasferii nel Cuneese, ove presso Busca era sfollata la mia famiglia, e qui assistetti allo scioglimento della IV Armata del nostro esercito, che dalla Francia si riversò nella pianura cuneese. Drammatico lo spettacolo di cavalli liberi in corsa per le vie, di barili di olio, di migliaia di scatolette di carne, di tutte le armi in dotazione da parte di militari in fuga, che cercavano indumenti civili per sottrarsi alla cattura e alla deportazione.
I soldati in fuga erano seguiti da centinaia di ebrei stranieri, in precedenza da loro protetti nel territorio semilibero della Francia. Sfiniti dalle traversie si consegnarono nella caserma di Borgo San Dalmazzo e furono deportati nel dicembre-gennaio 1944 al campo di sterminio di Auschwitz.
Il confuso scioglimento dell’intera IV Armata, quando i tedeschi non erano ancora arrivati, fu uno spettacolo deprimente. Pensai che l’esercito era disonorato e ormai superfluo.
A Torino nel settembre 1944, mentre mi trovavo nell’ufficio paterno (un’agenzia di assicurazioni negli ammezzati di Piazza Solferino, 3) fui visitato da due energumeni della Polizia fascista (UPI = Ufficio Politico Investigativo della RSI) per una perquisizione.
Avevo falsi documenti di identità, ma venni smascherato e mentre fuggivo fui oggetto di una sparatoria. Dei tre colpi di pistola, uno mi colpì ma venne bloccato dal mio portasigarette di metallo. Caddi e il gorilla fascista, sorpreso che fossi vivo, esclamò “Accendi un cero alla Madonna” cui risposi che proprio non potevo farlo.
Fui imprigionato nella caserma-carcere di Via Asti. Una singolare reclusione perché nell’enorme stanzone adibito a dormitorio una fila di brande, addossate al muro, accoglieva i presunti antifascisti ed un’altra fila contrapposta ospitava i fascisti in uniforme accusati di reati comuni. Pertanto durante le giornate gli uni e gli altri fraternizzavano conversando, giocando a carte, fumando. Le mie esperienze in tale prigione (ove in una cella era segregato un prete protettore di ebrei mentre nello stanzone passeggiava il cappellano delle Brigate Nere, don De Amicis, che ci invitava ad entrare nelle forze fasciste) le ho descritte nel libro “Quelli di Via Asti”, redatto nel 1946, ma pubblicato nel 2013.
Dopo poche settimane il denaro che mia sorella consegnò al doppiogiochista Avv. Dal Fiume per corrompere i miei persecutori, mi permise di venire scarcerato, previa una breve sosta nelle Carceri Giudiziarie. Qui incontrai mio cugino Aldo Momigliano, dimenticato dalla Giustizia. Pochi giorni dopo venne catturato suo fratello Italo e poi, mentre si trovava al ristorante, chiamato al telefono a voce alta dalla cameriera, il fratello Dante. I due fratelli vennero imprigionati nel “braccio tedesco” e furono raggiunti dal fratello Aldo che incautamente aveva loro inviato degli alimenti. Così i tre fratelli Momigliano finirono a Flossemburg ove perirono nel marzo 1945. L’accanimento verso i Momigliano era dovuto alla ricerca di Franco Momigliano, attivissimo di G.L. nella Resistenza.
Nel gennaio 1945 entrai nella 1° Divisione Alpina “Giustizia e Libertà” a Pradleves e combattei per la liberazione di Caraglio e di Cuneo.
Dopo la Liberazione fui assunto nella redazione del quotidiano liberale L’OPINIONE, diretto da Franco Antonicelli e da Giulio De Benedetti, insigne Maestro di giornalismo.
Alla vigilia del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 incontrai in Piazza Castello il “re di maggio” Umberto II di Savoia, che circolava distribuendo il titolo di cavaliere del Regno per ottenere voti. Gli chiesi a bruciapelo “Lei voterà per la Repubblica o per la Monarchia?”. Mi guardò stupefatto e senza rispondermi si allontanò velocemente.
Quando L’OPINIONE cessò la pubblicazione sostituita da “LA NUOVA STAMPA” entrai nella redazione del quotidiano socialdemocratico MONDO NUOVO diretto dall’ON. Bonfantini. Quando cessò le pubblicazioni, sostenni gli esami da procuratore legale e cominciai il praticantato. Il 31 agosto 1949 difesi dinnanzi al Tribunale Militare di Torino il primo obiettore di coscienza Pietro Pinna e dopo di lui centinaia di o.d.c. negli otto Tribunali Militari sino al riconoscimento legale dall’o.d.c. nel 1972. Fondai a Torino la Lega Italiana Divorzi (LID) collaborando con l’on. Loris Fortuna per la legge che introduceva il divorzio e guidai la battaglia contro il referendum abrogativo indetto dalla D.C. e dal M.S.I.
Dopo molti anni e molte vicende (per un quinquennio fui capogruppo del PSI al Consiglio Comunale di Torino, fondai e diressi il periodico politico-culturale L’INCONTRO per 70 anni sostenitore dei diritti civili, della pace e dell’antirazzismo, tenni la presidenza dell’associazione nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno” e la direzione dell’omonima rivista, fui presidente per 40 anni della Federazione delle Società per la cremazione cui dedicai la rivista L’ARA, consigliere degli Ospedali Psichiatrici di Torino, Collegno, Grugliasco fondando la rivista “Nuovi Orizzonti” cui collaborarono i malati di mente), svolsi per 50 anni la professione di avvocato.
Forse mi sono dilungato troppo. Ma posso ben dire con Brecht che “chi combatte può perdere, ma chi non combatte ha già perduto” nella battaglia a favore della eterna libertà e alla necessaria dignità.