44 anni fa l’omicidio di Piersanti Mattarella. Pagò con il sacrificio della vita il suo profondo rispetto per le istituzioni democratiche

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Gli anni Ottanta segnarono la tragica svolta della violenza mafiosa con gli omicidi politici.

E, infatti, c’è un prima e c’è un dopo nella storia politica della Sicilia. La data spartiacque è il 6 gennaio 1980. Sono le 12.45 a Palermo, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, si sta per recare a messa, come ogni domenica. Scende in garage insieme al figlio Bernardo, che vi si attarderà qualche minuto, prende la sua Fiat 132, in retromarcia arriva alla porta d’ingresso dell’abitazione per far salire la moglie, Irma Chiazzese, la suocera e la figlia. All’improvviso un ventenne, con indosso un piumino azzurro e a volto scoperto, si accosta al finestrino del lato guidatore e tenta di aprire la portiera. Non ci riesce. Estrae una pistola e spara alcuni colpi attraverso il finestrino. L’arma si inceppa, l’uomo si allontana per prenderne un’altra da un complice lì vicino. Torna e spara ancora, questa volta diagonalmente, dal finestrino posteriore destro.

Piersanti Mattarella morì muore sotto gli occhi della moglie, che tentò di proteggere il capo del marito con le mani, rimanendo ferita. Gli attimi successivi passeranno alla storia in una foto di Letizia Battaglia: Piersanti tra le braccia del fratello Sergio.

Per il presidente della Regione Sicilia, raggiunto da sei pallottole alla tempia, alle spalle, al petto, al fianco destro, non c’è scampo. Il suo giovane cuore si ferma sette minuti dopo l’ingresso nell’ospedale di Villa Sofia. L’autopsia rivelerà che già i primi colpi erano stati fatali. È il fratello, affranto, a comunicare alla folla radunatasi fuori dall’ospedale che «non c’è più nulla da fare».

L’uomo che aveva avviato una nuova stagione politica nell’isola era stato assassinato. Mattarella era stato sostenuto con forza da Aldo Moro, con cui aveva lavorato per favorire l’evoluzione «in senso compiutamente democratico del Pci attraverso il dialogo, il confronto e l’associazione all’area di governo».

Fu ucciso poiché, in qualità di presidente della Regione, era riuscito a dare forma a un «governo delle regole» in una terra abituata a non averne. Nessuno slogan da ostentare (come si potrebbe mal pensare in un’epoca come la nostra, abituata ai continui «cinguettii» del politico di turno), bensì un progetto autentico e rigoroso, fatto di interventi concreti: controlli scrupolosi sull’aggiudicazione delle gare d’appalto, lotta alla speculazione edilizia, una nuova legge urbanistica (rivoluzionaria per la Sicilia, con la riduzione degli indici di edificabilità), per fare solo qualche esempio.

Sorretta da una grande fede, la sua fu una rivoluzione gentile – culturalmente, civicamente e spiritualmente cresciuta all’interno dell’Azione Cattolica – che lo portò a schierarsi apertamente contro la criminalità mafiosa in anni in cui il nostro Paese era privo di una qualsiasi legislazione antimafia (e men che meno di una cultura dell’antimafia) in grado di riconoscerne la pervasività e la pericolosità. Il tutto muovendosi all’interno di un partito, la Democrazia cristiana, che fra i suoi maggiori esponenti locali schierava purtroppo anche politici come Vito Ciancimino, per tanti anni sindaco e assessore ai lavori pubblici di Palermo e poi sindaco per breve tempo, referente di quegli stessi corleonesi che ne insanguinavano impuniti le strade. Per avere un’idea di Mattarella e del suo rigore, basta rileggere il discorso che tenne solo un mese prima di essere assassinato davanti a Sandro Pertini, in occasione della visita presidenziale nell’isola. Nel suo discorso intervento chiedeva espressamente al capo dello Stato di aiutare i siciliani a liberarsi dall’oppressione mafiosa, fermamente convinto che il riscatto dell’isola non potesse (e ancora oggi non può) che passare dalla liberazione dei suoi «legacci». Una sfida aperta alla mafia, che da presidente della Regione portò avanti impegnandosi anzitutto a ripristinare le condizioni di legalità nell’amministrazione, in chiara collisione con gli interessi mafiosi.

Era, per natura, assolutamente contrario alla mentalità mafiosa. Nessun ammiccamento a nessun personaggio che volesse dominare il territorio, sostituendosi allo Stato. Nessun piegarsi all’arroganza. Ai suoi giovani ripeteva continuamente: «Non vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre o, peggio, chiacchierato e impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le cose».

Fu in questa direzione che maturò la netta opposizione di Mattarella alla politica alla Ciancimino. Una vera e propria contrapposizione, innanzitutto culturale, fra i due uomini. Non a caso, fu proprio lui a essere tra i primi a sbarrare la strada a «don Vito» negli incarichi direttivi di partito. Questo cammino per prendere le distanze da Ciancimino terminò con il congresso del 1983 con l’altro Mattarella, Sergio. Fu poi, ma solo poi, che anche tutta la Sicilia gli voltò le spalle all’ex sindaco di Palermo venuto da Corleone.

Quando nel febbraio del 1979 Pio La Torre indicò l’assessorato dell’Agricoltura come centro della corruzione regionale, Mattarella, invece di difendere l’assessorato e l’assessore, ribadì la necessità di seguire principi di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali. Forse fu proprio questa presa di posizione a costargli la vita. Dopo l’uccisione, per ordine di Tano Badalamenti, di Peppino Impastato, Mattarella pronunciò un durissimo discorso contro Cosa nostra che stupì gli stessi sostenitori di Peppino.

Per i tragici fatti del 6 gennaio 1980, la condanna dei boss della cupola mafiosa arrivò quindici anni dopo,  ma non vennero mai identificati gli esecutori materiali del delitto.

Tra le tante coincidenze assurde nella tragica fine del presidente, ce n’è una che racconterà ai giudici il fratello Sergio, destinatario privilegiato delle confidenze politiche di Piersanti, un episodio accaduto immediatamente dopo l’omicidio Moro: Piersanti aveva a casa una linea telefonica riservata, il cui numero era noto solo ai familiari più stretti. Ebbene, su quella linea arrivò una telefonata anonima, nella quale Piersanti fu esplicitamente minacciato: «Farete la fine di Moro, presto toccherà anche voi».  Il giudice Pietro Grasso svolgerà indagini in tutte le direzioni. È certo che fu la cupola di Cosa nostra a ordinarne l’omicidio, ma chi l’aveva eseguito?

(…)

L’unica certezza è che Mattarella pagò con il sacrificio della vita il suo profondo rispetto per le istituzioni democratiche e per l’idea di una politica alta e nobile; pagò in quanto protagonista di un’azione di pulizia e di modernizzazione a tutto tondo, che a cominciare dal suo interno e dai suoi rappresentanti potesse raggiungere l’intera società. Una grande lezione da non dimenticare e che in Sicilia e in tutta Italia, a distanza di quarant’anni, dà una risposta di dovere e di speranza a un bisogno e a un auspicio ancora drammaticamente attuali, purtroppo.

(Tratto dal libro “Traditori” – edito Solferino)  


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