Viene prima l’autostima di una donna o il ruolo che le affida la cultura dove nasce? Il film C’è ancora domani si distende tra questi due concetti con grande intensità. Delia (Paola Cortellesi) subisce umiliazioni e maltrattamenti da un marito violento (Valerio Mastandrea), ma imposta la sua vita considerando normale questa sudditanza. La figlia prossima alle nozze la mette in allarme, perché pensa che anche per lei si prospetti un futuro di coppia umiliante. Delia sopporta il proprio fallimento, ma non si rassegna a quello della figlia. E capisce che se vuole salvarla, deve prima riscattare se stessa.
Il film procede con qualche ridondanza sulla violenza familiare, ma è un peccato veniale in una sceneggiatura che invece scorre in dialoghi ben scritti, valorizzati dalla grande prova degli attori. Mentre lo vedo, penso a quante volte ho sentito litigi in casa fondati sulla pretesa di mio padre di non essere contraddetto da mia madre. La violenza per fortuna si limitava a rari schiaffi, ma per noi bambini quelle tempeste di gesti e urla erano uno spavento enorme. Eppure non eravamo di un ceto popolare come Delia, ma il maschilismo anche negli anni 60/70 era assoluto e trasversale per tutte le classi sociali.
E’ in quegli anni da adolescente che capii che le ingiustizie contro le donne riguardavano anche me, come uomo. Dopo la laurea in giurisprudenza, iniziai ad affiancare un avvocato che offriva gratuitamente assistenza legale alle famiglie più povere nelle borgate. Il 90 per cento del nostro lavoro riguardava casi di grave violenza dei mariti verso le mogli. Sono uscito dal cinema con un senso di profonda gratitudine verso le donne che si sono battute per la loro dignità, creando il movimento femminista. Perché dove stanno bene le donne, stanno bene tutti.
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