Al di là di un certo – talvolta eccessivo- ricorso a qualche parola ad effetto (ma in epoca di social funziona), il rapporto annuale del Censis fornisce dati importanti. Il capitolo dedicato ai media è certamente utile. Prima di riflettere sugli andamenti numerici del sistema, c’è un aspetto che dovrebbe animare la riflessione.
Le persone – e parliamo di coloro che seguono- sono sempre meno attratte dalla politica. Se si guardano i telegiornali, ma pure Facebook ad esempio, la percentuale degli interessati è scesa dal 39,7% del 2021 al 32,4% nel 2022. In verità, c’è da sottolineare che non tutto si spiega con la crescita delle astensioni al voto o al disinteresse verso i ceti dirigenti vissuti come lontani e autoreferenziali. Il racconto della vita pubblica è troppo spesso insopportabile. Dai pastoni politici, pur discutibili e tuttavia confezionati con qualche cura, si è passati all’intervista magari solo con microfono senza domanda, o all’autocelebrazione con telefono cellulare, o alla rincorsa di questo o quel parlamentare sui sampietrini di piazza Montecitorio sempre di corsa con il trolley di ordinanza. Si può aggiungere, per aumentare la sofferenza, lo stile domenicale delle riprese svolte in un’abitazione o in una strada con l’interlocutore che guarda in macchina recitando un paio di versetti.
Non suoni offesa verso chi oggi rappresenta il popolo italiano, ma non ci si meravigli delle conseguenze.
Il direttore del Tg1 Chiocci, all’atto dell’insediamento, fece promesse risultate incaute, visto il quadro odierno. Se, poi, ci si discosta dal pensiero dominante come fanno certe trasmissioni birichine (da Report, a Presa diretta, a pochi altri casi), la censura incombe con tanto di convocazione da parte di una commissione di vigilanza trasformata in Inquisizione.
L’informazione (magari in modo discutibile) sorretta da una maggiore argomentazione come quella dei quotidiani ha perso dal 2007 -l’anno prima della grande crisi- ad oggi il 41,6% di lettrici e lettori. Discesa bilanciata molto parzialmente dall’incremento del 4,7% dell’utenza online. Il consumo dei libri tocca solo il 42.7% del totale, ivi compresa la scolastica.
Tra i giovani (14-29 anni) il 93,4% utilizza WhatsApp, l’83,3% YouTube, l’80,9% Instagram. Si assiste ad un forte incremento di TikTok (54,5%), Amazon (54.3%), Spotify (51,8%) e Telegram (37,2%). Flettono Facebook (51,4%) e Twitter/X (20,1%).
C’è un nesso tra tutto questo? Sono inutili e fuorvianti gli atteggiamenti moralistici o nostalgici. Guai ad esorcizzare i mutamenti dei gusti, come accadde al tempo della televisione.
Tuttavia, non c’è bisogno di sviluppare sottili analisi per comprendere che la narrazione politica e gli stessi principali quotidiani sono vissuti come le cittadelle del potere e la voce o l’espressione dell’establishment. La crisi della parte storica dei media tocca pure il video generalista, soppiantato via via dalla smart-tv ovvero la televisione per le classi agiate.
Insomma, la difficoltà a riorganizzare il discorso pubblico emerge con chiarezza, congiungendo punti di osservazione apparentemente lontani ma connessi proprio dal clima di opinione.
Non sarà un caso se sul banco degli imputati c’è l’informazione sulle guerre in corso, considerata negativamente in complesso dal 71,8% della fruizione.
Nell’assemblea dello scorso lunedì promossa da Articolo21 si è rimarcato (innanzitutto per voce della giornalista Stefania Maurizi) che Julian Assange e WikiLeaks ci avrebbero fornito ben altre fonti e notizie.
Siamo in un passaggio delicatissimo, la base di incubazione della fortuna definitiva dell’intelligenza artificiale, bisognosa di ignoranza diffusa.
PS. Il testo dell’European media freedom act è agli sgoccioli e il rischio concreto è che, pure grazie ad un’iniziativa del governo italiano, il punto riguardante la possibilità di spiare i giornalisti potrebbe essere peggiorato. Il tutto avviene in una struttura opaca non prevista dai Trattati, il cosiddetto trigolo, cui partecipano il Parlamento, la Commissione e il Consiglio. I poteri formali hanno il loro doppio.