Samira Sabzian non aveva neanche trent’anni. Li avrebbe compiuti il prossimo anno, ma in realtà non li compirà mai. Non accadrà perché stamattina, all’alba, è stata impiccata in Iran per aver assassinato, dieci anni fa, l’uomo cui era stata data in sposa ad appena quindici anni. Non giustificheremo mai un omicidio, ma stavolta è doveroso contestualizzare. L’uomo in questione, infatti, era un violento, la picchiava e la umiliava in tutti i modi. Se il delitto fosse avvenuto in Italia, probabilmente, sarebbe stato considerato legittima difesa o, comunque, le sarebbero state riconosciute tutte le attenuanti del caso. In Iran, invece, è stata uccisa dallo Stato, dopo essere stata privata della libertà e costretta a vivere dieci anni d’inferno in una delle carceri che abbiamo imparato a conoscere in questi anni di violenta repressione di ogni dissenso.
Giunti a questo punto, una riflessione si impone. Può l’Occidente continuare a dialogare e fare affari con un Paese del genere? Possiamo dimenticarci così dei diritti umani e pretendere, al contempo, di rivendicare i nostri presunti valori? Possiamo, ancora una volta, far finta di niente, salvo poi commuoverci di fronte alla prossima Mahsa Amini che, inevitabilmente, sarà massacrata da un regime spietato che calpesta costantemente la dignità e la libertà dei propri cittadini e, più che mai, delle proprie cittadine? Ha davvero senso quest’indignazione a comando: falsa, posticcia e priva del benché minimo pathos per risultare credibile?
Cosa ne sarà di noi se non avremo il coraggio di scendere in piazza per ricordare Samira, se non le dedicheremo almeno un minuto di raccoglimento o, meglio ancora, di rumore, come abbiamo fatto nelle scorse settimane per Giulia Cecchettin, e se continueremo a illuderci che una simile barbarie non ci riguardi? Davvero pensiamo di essere al sicuro? Davvero non abbiamo capito quale vento spiri in ogni angolo del mondo? Davvero siamo convinti che la repressione sia appannaggio di regimi lontani, nel momento in cui assistiamo ogni giorno a una deriva anti-democratica che coinvolge eccome le nostre società?
Mai avrei immaginato di dover fare i conti con una simile miopia, con tanta drammatica indifferenza, con l’offensiva autoreferenzialità di un dibattito pubblico privo del benché minimo slancio; mai avrei voluto prendere atto del livello di degrado cui siamo arrivati; mai avrei voluto formulare riflessioni così amare sul nostro addio alla speranza e sulla nostra perdita di senso. Eppure, se non ci ribelleremo a tutto questo, se non avremo la forza di scendere in piazza per le innumerevoli Samira ancora ostaggio di un regime che si commenta da solo, se non saremo in grado di chiedere a gran voce il ritiro dell’ambasciatore, o per lo meno un richiamo, da quei paesi che non rispettano alcuno standard di quelli che riteniamo indispensabili per far parte, ad esempio, dell’Unione Europea, finiremo con l’accettare tutti gli Orbán che spunteranno come funghi nei prossimi anni e con l’assistere, di conseguenza, alla distruzione della nostra casa comune.
Samira siamo noi. Batterci affinché almeno la sua memoria sia custodita e difesa significa batterci per il nostro futuro. E se qualcuno intende voltarsi dall’altra parte solo perché pregava un altro Dio, sappia che è parte del problema e merita il massimo disprezzo.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21