Nelson Mandela capì presto che la sua vita sarebbe stata caratterizzata dalla lotta. Una passione civile senza eguali, un coraggio leonino, un impegno al servizio della comunità che lo ha portato a sacrificare l’intera esistenza in nome dei suoi ideali. Già dieci anni senza l’uomo che ha rivoluzionato l’Africa, sconfitto l’Apartheid e squarciato il velo d’ipocrisia di un Occidente che, in seguito alla decolonizzazione, si era lavato la coscienza delle proprie colpe passate, ponendosi come esempio da seguire e ignorando la scia di sangue, il dolore e la sofferenza che aveva lasciato dietro di sé.
Cosa dire, dunque, di Madiba che non sia già stato detto? Si trattava di una figura eroica, certo, anche se non priva di contraddizioni. E forse l’aspetto più nobile della sua personalità era proprio questo: il non voler diventare un santino, il costante rifiuto dell’aureola che chiunque tendeva a mettergli intorno al capo, restando affascinato da una personalità dirompente e da una storia colma di sacrificio e di strazio, il suo progetto di riconciliazione nazionale che ha fatto la differenza quando, anziché inseguire la vendetta, ha puntato sulla “Nazione arcobaleno”, insieme all’arcivescovo Desmond Tutu e a una comunità che seppe convincere della necessità di prendersi per mano.
Il Mandela più autentico, pertanto, è quello che festeggia la vittoria del Sudafrica ai Mondiali di rugby del ’95, quando gli Springbocks si imposero sulla Nuova Zelanda e diventarono un patrimonio dell’intero Paese, superando la storica frattura fra bianchi e neri. Se questo accadde, il merito fu anche del capitano di quella squadra, François Pienaar, a sua volta sconvolto dall’incontro con un leader che era riuscito a trasmettergli, con parole semplici e la forza dell’esempio, il suo sconfinato desiderio di voltare definitivamente pagina rispetto alla tristissima vicenda di cui era stato protagonista.
Nella prefazione al bel saggio di Richard Stengel, “La lezione di Nelson Mandela”, scrisse: “In Africa esiste un concetto chiamato ubuntu, il cui senso profondo è che noi siamo uomini solo grazie all’umanita altrui e che se, in questo mondo, riusciamo a realizzare qualcosa di buono, il merito sarà in egual misura anche del lavoro e delle conquiste degli altri”. Di tutte le lezioni che ci ha donato, questa è senz’altro la più importante. Perché Mandela non è stato solo un’icona ma anche uno stile di vita, un modello di relazione con il prossimo e un punto di riferimento per chi non accetta l’ingiustizia, non sopporta le disuguaglianze e non vuole rassegnarsi all’orrore. Madiba sosteneva che il coraggio non consistesse nel non aver paura ma nel trionfo su di essa. E diceva anche che un vincitore altro non è che un sognatore che non si è mai arreso. Lui non lo ha mai fatto: non è rimasto indifferente, non si è voltato dall’altra parte, non ha mai smesso di provare empatia nei confronti dell’altro, chiunque fosse, in qualunque angolo del mondo si svolgesse la sua battaglia. Infine, ha saputo uscire di scena al momento opportuno, dopo aver conquistato i Mondiali di calcio del 2010, con un memorabile giro di campo nel Soccer City Stadium di Johannesburg alla vigilia della finale.
“Anche deporre le armi – era la sua convinzione – può essere una vittoria”. Mai come oggi queste parole ci appaiono profetiche. Mai come oggi ne avvertiamo il bisogno.
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