Il silenzio dei prepotenti. Salvini diserta il processo (voluto da lui) contro Saviano

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Tira la pietra e nasconde la mano, Matteo Salvini. Cinque anni fa, nel 2018, ha denunciato Roberto Saviano per averlo definito “ministro della mala vita”, citazione salveminiana ritenuta offensiva da Salvini (allora ministro dell’Interno, oggi ministro delle Infrastrutture) al punto da spingerlo a usare la carta intestata del Viminale.

Oggi, 7 dicembre, alla terza udienza del processo voluto dal ministro contro lo scrittore non si presenta al Tribunale di Roma dove era prevista la sua deposizione. Non si era presentato alle scorse udienze, non lo fa nemmeno stavolta. Oggi aveva un videocollegamento, un pranzo di beneficienza e questa sera alle 18, si legge nella sua agenda, deve essere a Milano per la prima della Scala (sic!). A quanto pare un ministro è troppo impegnato per andare in tribunale, specie quando è lui che deve deporre, ma non lo è quando si tratta di avviare un processo contro uno scrittore, un giornalista o un oppositore. La sproporzione di un processo in cui un membro del governo accusa un cittadino, è evidente. Il potere fa così: mostra i muscoli, lamenta lesa maestà, non ragiona e non vuole ragionare, non risponde.

«Non trovando nel Nord una solida e permanente maggioranza, Giolitti andava a fabbricarsela nel paese dei terroni». Queste parole di Gaetano Salvemini sono una sintesi perfetta dell’espressione da lui coniata: «ministro della mala vita». Un’espressione nata alle elezioni generali del 1909 quando Gaetano Salvemini va a Gioia del Colle, dove il giolittiano Vito De Bellis prepara le elezioni con violenze e intrighi. Un’espressione che riassume tutte le responsabilità di una politica che – oggi come allora – “sbarca al Sud” d’estate per fare un bagno o sempre per cercare voti. L’abitudine a fabbricare il consenso «nel paese dei terroni» l’Italia non l’ha mai persa. Anzi è ancora lo schema con cui la politica costruisce consenso, maggioranze, potere.

Da ormai dieci anni, era l’inizio del 2014, entrambi i leader della destra istituzionale Meloni e Salvini hanno intrapreso la strada del sovranismo populista. Ma se la “nazione” è da sempre nel Dna di Fratelli d’Italia, lo stesso non può dirsi per la Lega che ha dovuto trasformarsi da secessionista (antimeridionalista e razzista con il Sud) a nazionalista e patriottica. La sfida di Salvini è stata transitare un partito anti-meridionalista nelle regioni meridionali. Un maquillage difficile, che ha reso necessario lo spostamento dell’asticella dell’intolleranza un po’ più giù: dai terroni agli immigrati.

Ora la Propaganda si accompagna a nuove promesse politiche: contrasto all’immigrazione, decreti sicurezza, provvedimenti di revisione dell’istituto della legittima difesa. Queste le “soluzioni” proposte ai meridionali in tempi di crisi economica. Si dice loro che i migranti sono competitori, anzi concorrenti sleali. In terra di capitalismo criminale, la criminalità viene attribuita all’arrivo dei migranti. E la retorica dell’ex anti-meridionalista, convertitosi al fervente nazionalismo, funziona. “Folgorato sulla via di Rosarno”, nel 2018 Salvini viene eletto in Calabria. Durante un suo comizio a Rosarno non pronuncia nemmeno la parola ’ndrangheta, eppure n prima fila ad ascoltarlo sono immortalati alcuni uomini della famiglia Pesce, storica famiglia criminale di affiliati alla famiglia Bellocco, potentissima organizzazione di narcotrafficanti.

Nel 2018 Salvini è all’apice del suo successo, è persino ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio dei ministri. E guai a chi osa mettersi in mezzo. La retorica neo-italica è famelica di nemici: bisogna togliere i migranti dall’Italia, togliere i Rom dalle strade, togliere la scorta a Roberto Saviano. Ospite in una delle migliaia di apparizioni tv – Agorà su Rai Tre – decide di attaccare lo scrittore mettendo in discussione la sua protezione: «Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero», dice il ministro e vicepremier in tv. E aggiunge: «È giusto valutare come gli italiani spendono i loro soldi».

Ed eccoci arrivati alle parole “incriminate”: «Le parole pesano, e le parole del Ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per ‘ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia». Roberto Saviano risponde così all’assedio del ministro. E come dargli torto?

Le parole pesano, i processi pure. I silenzi rimbombano.

Eppure il problema non è Salvini in sé, ma il Salvini in te. Il Salvini in troppi. Quel Salvini che dice tutto e il contrario di tutto, che minaccia, mente, ribalta il senso delle cose e delle parole. Quel Salvini che vuole un processo e poi lo diserta, che piega la giustizia alla sua propaganda, che tira la pietra e mmuccia (nasconde) la mano, che la passa sempre liscia. Con buona pace di chi tace nella comoda indifferenza e di chi allena la propria bile replicando l’odio di potere.


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