Diario di guerra /14

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Quando si legge che, persino per l’alto rappresentante europeo per la politica estera della UE, Josep Borrell, Gaza è ridotta come – e peggio – della Germania devastata al termine della Seconda guerra mondiale, torna la domanda che vorremmo volentieri poter rimuovere: quale può essere il compito, lo sforzo, di chi vuol vivere questa guerra senza piegarsi alla tendenza, dominante, di accettare il versamento di altro combustibile – e sangue – nell’incendio furioso e disumanizzante della disumanizzazione?

La mia reazione, istintiva, è recuperare ricordi, ormai lontani, nel tentativo di far sapere, almeno a qualcuno, che c’è stata, in passato, la spinta e la capacità di comprendere l’altra parte da sé: di accettare anche il nemico storico. Vorrei dare merito a chi ha voluto farlo, da entrambe le parti. Ma può aiutare, oggi? Le nubi del dolore mi sembrano così minacciose che anche questo esercizio di memoria potrebbe apparire una posa del giornalista: calligrafia sulla sabbia di una terra desolata. Ma siccome la ragione è più forte delle emozioni, non sarà così.

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Mi sono ritrovato sotto gli occhi una di quelle definizioni che appaiono fatali: il meccanismo drammatico che ha preso il sopravvento. Ieri il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, secondo quanto riferito dai media locali, ha detto: «l’obiettivo dell’autorità palestinese è distruggerci. Hamas vuole farlo qui ed ora, (mentre) l’Autorità Palestinese (vuol farlo) a tappe».

Lo ha detto per ribadire il suo convincimento: dopo la guerra non potrà esserci il ritorno dell’Autorità Palestinese a Gaza. Qual è, invece, l’obiettivo di Netanyahu con l’operazione militare in corso?  C’è qualcosa in entrambe le parti che vorrebbe che l’altra sparisse. Ma la realtà è che esiste. E questa consapevolezza, a volte, sa emergere, sebbene nel furore della guerra gli estremi gridino: dal Giordano al Mediterraneo la Terra è nostra.

Dunque, è la giustizia a tormentare? Per gli israeliani – almeno per molti – la ragione è biblica e, insieme, storico-patriottica, posto il passato e posto che la Cisgiordania e la Striscia sono state occupate a seguito di una guerra di aggressione. Per i palestinesi la ragione storica è scritta nei documenti di proprietà dei loro terreni e delle loro abitazioni, che non si possono dividere a metà. La certezza di possedere il giusto diritto allontana profondamente gli uni dalle ragioni degli altri. Il costo di tutto questo? Si vive in un cimitero o accanto a un cimitero. Si vive in una prigione a cielo aperto o accanto ad essa. Ma se solo tutti potessero uscire dalle loro passioni – secondo l’espressione usata da Francesco – e si chiederebbero: ha senso tutto questo!?

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Siamo nelle ore in cui all’Onu si torna a votare sul cessate il fuoco a Gaza – dopo lo shock del voto del Consiglio di sicurezza – con l’85% della popolazione palestinese ormai senza protezione alcuna, pressoché privata di alimentazione giornaliera. Con questo pensiero, trovo motivo di ricordare, ciò che alcuni, in passato, ebbero il coraggio di fare, scegliendo il possibile rispetto al giusto nella loro testa. Torno al punto da cui sono partito. Con un esempio.

All’inizio degli anni ‘90, l’ideologo dell’intifada, il professor Sari Nusseibeh, e un grande accademico di studi strategici israeliano, Mark Heller, accettarono, tra mille resistenze di parte, di sedersi uno dinnanzi all’altro, per provare a definire un possibile piano di pace, completo: e ci riuscirono.

Ciò che qui ha senso evocare, non sono i precisi termini storici del loro compromesso. Interessa, piuttosto, far affiorare le coordinate mentali che consentirono di elaborare quel compromesso. Quelle coordinate sono state scritte in due prefazioni parallele. Penso ci dicano ancora moltissimo.

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Nusseibeh scrisse della sua condizione emotiva d’esordio dell’incontro: dell’impulso di ribellione davanti alla controparte israeliana, da chiunque fosse rappresentata, ma anche della consapevolezza che il futuro del suo popolo non potesse che stare di fronte a quella controparte. Partire dalla realtà – quale che sia – è sempre l’unico modo per cambiarla. Per i palestinesi – osservava Nusseibeh – i vantaggi sarebbero stati immediati, mentre per gli israeliani sarebbero stati proiettati sul loro futuro.

Giustamente, a quel tempo, Nusseibeh si chiedeva come Israele avrebbe potuto vivere, ad esempio, in una costante tensione demografica con la Palestina, impegnandosi ad assorbire una crescente popolazione di ascendenze ebraiche da tutto il mondo. Allora i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania erano 1.700.000, oggi sono su circa cinque milioni.

Ecco, dunque, la forza di una ragione – non scevra da sentimenti – che ha saputo osare la trattativa e sortire un compromesso, quale alternativa alle passioni che inducono solo e soltanto lo scontro in nome di ciò che si ritiene assolutamente giusto, ma sullo sfondo della paura della distruzione da subire da un momento all’altro: lo stesso sentimento provato, sin nell’intimo, da entrambi i popoli. Nell’attesa della migliore, ma impossibile, giustizia, Nusseibeh accettò di sedersi a parlare e a trattare con Heller.

Heller ha saputo fare altrettanto, scommettendo su un futuro diverso per il suo Paese. Il rischio della cancellazione di Israele lo valutò minimale, come ebbe a scrivere. Mentre gli apparve chiaro e immediato il prezzo da pagare se non avesse accettato di rinunciare a qualcosa di suo, di Israele. Anche solo una pace fredda, come quella con l’Egitto, avrebbe prodotto cospicui vantaggi. Heller avvertì che una pace siffatta avrebbe potuto non essere stabile, definitiva, ma ben capì che le risorse distratte dal conflitto – e portate allo sviluppo – avrebbero reso un indiscutibile beneficio ad Israele, ed anche ai palestinesi. E così, per certi versi, sono andate, per un po’, le cose. Val la pena ricordarlo oggi.

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C’è altro che fa riflettere, oggi, guardando a quel passato. In quel testo c’è, infatti, una novità storica, ignorata sino a quel momento e che non cessa di sorprendermi. Nusseibeh rivelò che suo padre fu autorizzato dal Mufti del tempo – l’arcinemico di Israele Haj Amin al Husseini – a investigare la possibilità di coinvolgere i britannici nella mediazione sull’attuazione del piano di partizione della Palestina: correva l’anno 1947. Il proposito fallì per una indiscrezione di stampa che svelò il segreto troppo presto. Anche questo dovrebbe insegnare qualcosa, per l’oggi.

Il piano di pace Heller-Nusseibeh, meriterebbe di essere letto di nuovo, non solo e non tanto per le soluzioni concrete che riuscì a prospettare, ma soprattutto per le motivazioni con cui si arrivò al confronto e per i criteri con cui fu condotto: per la scelta della pace – per quanto fredda – piuttosto dell’uso pazzesco delle armi, in vista della giustizia ultima. La giustizia non può essere un’ideologia, ma è sempre la costante e paziente ricerca del possibile, nei disastri già combinati nella realtà. Chissà che qualcosa di tal fatta non ritorni oggi dall’assemblea dell’Onu!

  • I precedenti interventi di Riccardo Cristiano possono essere letti qui.

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