A due mesi dal pogrom del 7 ottobre, insistentemente, mi ritorna una domanda cruciale che rimane ancora senza una chiara risposta: cosa intendeva conseguire Hamas?
La ricerca di una plausibile risposta è contestuale ad una seconda domanda, pure insistente, dentro di me: cosa intende conseguire il governo israeliano? Sempre troppo tardi arrivano le risposte sensate – se poi arrivano – di fronte ad una realtà orribile come questa guerra. Ma proviamoci.
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A mio avviso Hamas intendeva ottenere esattamente ciò che ha prodotto, ossia una reazione eccessiva da parte di Israele. Uso l’espressione “eccessiva” non sulla base di valutazioni morali – peraltro estranee al mondo concettuale di Hamas – bensì “fisiche”. Una reazione eccessiva è dunque, per Hamas, una reazione che eccede la guerra, militarmente intesa, contro i suoi combattenti, i bunker, i tunnel di arroccamento, ecc., per coinvolgere la popolazione civile, specie la parte più fragile: donne, anziani, bambini, le abitazioni dei poveri e persino i campi profughi.
In tal modo Hamas contava – e tuttora conta – di massimizzare il consenso interno tra i palestinesi che già gli avevano voltato le spalle nella Gaza malgovernata, oltre che in settori dell’opinione pubblica mondiale. Alcuni leader della organizzazione lo hanno chiaramente lasciato intendere, se non detto espressamente. Servivano migliaia morti civili: eccoli! Lo ha chiaramente affermato Khalil al-Hayya, dirigente di Hamas, che a novembre aveva annunciato al New York Times che Hamas sapeva che la reazione di Israele sarebbe stata «grande».
Se non credessimo a Khalil al-Hayya – se pensassimo che mentisse parlando con chi lo ha intervistato – dovremmo concludere che i terroristi seguono logiche per noi inaccessibili, o che il desiderio dei terroristi sia solo quello di morire, per la causa.
Eppure, Hamas voleva effettivamente determinare quella reazione che sappiamo per conquistare i cuori e le menti dei palestinesi e così poter gestire ancora, con gli alleati – in primo luogo con l’Iran – il post emergenza. Tale determinazione spiega pure il grande lavoro compiuto per esporre al mondo intero l’effetto della reazione israeliana, in termini di morti, distruzioni, fame, ecc. e così ottenere l’inevitabile partecipazione dell’opinione pubblica mondiale.
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Se questa è la corretta rappresentazione di quanto aveva in mente Hamas, quale potrebbe essere l’onesta rappresentazione di ciò che vuole il governo israeliano?
***Su questa risposta il lavoro interpretativo è più complesso, perché i governi democratici non si pongono, necessariamente, un solo obiettivo chiaro e condiviso da tutti, specie dinnanzi alla pura emergenza. Tuttavia, il timore palestinese è chiaro: è l’espulsione della popolazione di Gaza verso il Sinai a sovranità egiziana, come ipotizzato dal ministro dell’intelligence. La veemente azione dei coloni in Cisgiordania fa temere, poi, una analoga prospettiva, a tappe incalzanti ma non quanto a Gaza, sulla pelle dei palestinesi che lì vivono da sempre, per obbligarli o indurli a riparare in Giordania.
Il punto che qui interessa non è la reale intenzione o la realizzabilità di un simile piano, ma la forza e la forza del timore! Egitto e Giordania non potrebbero mai accettare quel piano passivamente. Il regime egiziano di al-Sisi ne uscirebbe destabilizzato, mentre la Giordania diventerebbe la nuova Palestina e a quel punto la famiglia reale dovrebbe andare a vivere altrove. Inoltre, ciò comporterebbe la violazione delle disposizioni dei trattati firmati dallo stesso Stato di Israele, in particolare con la Giordania. Molti analisti parlano anche di un terzo ostacolo da superare: la comunità internazionale.
Sui giornali arabi pochi legittimano il timore ricordando la deportazione di massa di 6,5 milioni di siriani dal loro Paese: dopo di ciò chi è più davvero convinto che la comunità internazionale non possa chiudere, ancora, gli occhi? Li ha già chiusi di fatto, da tempo, nel silenzio di molti di coloro che ora dicono che non si possono chiudere gli occhi davanti alle catastrofi umanitarie!
Qualcuno piuttosto ha notato che andrebbe preso in seria considerazione cosa potrebbero fare i soldati egiziani e giordani – ferma la posizione dei rispettivi governi – se una massa di palestinesi in fuga arrivasse ai loro confini, disperatamente? Dovrebbero sparargli contro, o no?
Anche questo, forse, non basterebbe a produrre un trauma mondiale, se solo si potesse escludere la produzione di immagini che documentassero al mondo. Quando Putin e Assad, con il concorso finale dell’ONU, cacciarono tutta la popolazione da Aleppo est dopo averla distrutta, fu l’assenza (o scarsità) delle immagini a fare la differenza, così da rendere la storia “digeribile” a tanti di noi che non hanno mai visto nulla.
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Scrivo questo non per escludere o legittimare il timore di questi scenari estremi, ma per sostenere che il dato decisivo nel conflitto – che definirei di psicologia collettiva – non sta ricevendo adeguata attenzione. Il fatto è che questi popoli, vittime di traumi – sia israeliani che palestinesi – rivedono le immagini, le ombre del loro passato proiettate sul loro presente e, inevitabilmente, sul loro futuro.
Il passato per gli israeliani non è solo Shoah, molto spesso isolata dai pogrom del passato ben più lontano. Oggi gli ebrei russi sono molti in Israele. E pogrom è parola russa. Senza dimenticare le espulsioni di massa degli ebrei da Iran, Iraq, Siria, Egitto, Yemen, Libia. Il 7 ottobre riporta a quel passato.
Anche i palestinesi hanno nella memoria viva la loro catastrofe collettiva più vicina, la Nakba, l’espulsione di moltissimi di loro dalla Palestina, nel ’48. Ciò che accade riporta in circolazione, perciò, i peggiori spettri. Per questo ritengo che i palestinesi opporrebbero ogni resistenza, pure all’istinto di sopravvivenza che li indurrebbe a fuggire e basta. Anche per loro il presente riporta a galla gli incubi del passato.
Chi recava perfetta memoria – e quindi consapevolezza – del complesso intreccio storico-psicologico era il grande intellettuale palestinese, Edward Said. Del suo popolo diceva: «noi siamo le vittime delle vittime, i rifugiati dei rifugiati». Dunque, il senso, per me, è: non siamo in un vicolo cieco, c’è una soluzione opposta a quella di cui abbiamo parlato; è quella che passa per il guardarsi negli occhi arrivando al riconoscimento, reciproco, attraverso il dolore dell’altro. L’ha detto, guarda caso, Francesco, a Gerusalemme: saper vedere il dolore dell’altro! È un’illusione?
In un’intervista di tanti anni fa Edward Said ci fece sapere che, quando divenne docente alla Columbia University, pubblicò il suo primo saggio di critica letteraria, dalla casa editrice gli fu chiesto un colloquio, a casa sua: il suo interlocutore voleva vedere come vivesse uno con quelle strane origini.
Era tanto tempo fa, ma forse in quel colloquio c’è ancora una delle ragioni per cui i nostri leader politici non considerano la possibilità della reciproca comprensione. Vorranno ora? Gli anni a cui si riferiva Edward Said sono lontani, ma il problema permane. Alcune pagine del processo di pace di allora ci dicono che israeliani e palestinesi hanno saputo e voluto vedere il dolore dell’altro. In una prossima puntata di questo diario varrà la pena ricordarne qualcuna.