Un amico della redazione di SettimanaNews mi chiede: «Che cosa succede ora, Riccardo, dopo qualche giorno di tregua tra Hamas e Israele? Qual è la prospettiva, secondo te?». Affido alla mia pagina di diario la risposta, tra la durezza indotta dalla ragione e la mia fiducia che va oltre la stessa.
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Una tragica lezione storica – un’altra! – affiora da quanto è accaduto e seguiterà ad accadere. Nel mondo, tutti convengono con quanto disse Bill Clinton ai tempi della sua presidenza: «It is all about economy, stupid!». «Tutto dipende dall’economia, stupidi!». La frase è divenuta famosissima. Le elezioni si vincono – o si perdono – solo sul terreno dei risultati economici. Questo è il senso. Non è la giustizia e ancor meno l’onestà della politica internazionale a determinare il successo.
Mi chiedo perché in Medio Oriente – in particolare tra israeliani e palestinesi – non debba funzionare pure così, come ci ha convinti Bill Clinton. Eppure, il mondo sta cambiando.
Un segno? Apriamo gli occhi: Roma ha fatto la figura della provinciale nella partita, impari, con Riad, per l’Expo. Per evidenti ragioni: i cammellieri di ieri sono oggi la nuova porta di connessione economica e ultramoderna tra Oriente e Occidente. In un processo di trasformazione talmente tumultuoso, come spiegare, allora, che l’economia arretri dinnanzi alla guerra di Gaza – quale tema relativo – per lasciare spazio, ancora, ad ideologie e messianismi? A sentire i telegiornali, in questi giorni, sembrerebbe che l’economia mondiale non abbia nulla a che fare con Gaza.
Ma esiste forse un leader israeliano che possa proporsi di vincere le prossime elezioni – quando prima o poi saranno – dicendo ai suoi concittadini: «investiamo, con la comunità internazionale, nello sviluppo di Gaza, in modo da farne un posto felice, in grado di portare partenariati economici, più turismo e simpatia anche in Israele»? Raccoglierebbe una manciata di voti!?
Potrebbe emergere un leader palestinese capace di dire, di converso: «chiediamo a Israele di investire, con la comunità internazionale, nello sviluppo di Gaza in modo da farne un posto di vita felice, capace di portare più turismo e partenariati economici anche agli israeliani»? Potrebbe ottenere consenso!? Se, anche noi, mentalmente, rispondiamo «no», vuol dire che non ci crediamo, che loro non ci credono, che non ci crede nessuno. O sbaglio?
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Penso tuttavia che porre questa domanda a entrambi i protagonisti, come ai loro supporter internazionali, sia doveroso. Possono darsi novità all’orizzonte: potrebbero essere molto importanti. Ma nessuno osa parlarne. Sarebbe, invece, opportuno provarci. Mi riferisco alla via del cotone e ai giacimenti sottomarini del Mediterraneo orientale. La via del cotone è un progetto in piena discussione, che dovrebbe portare dall’India, via mare e via terra, i prodotti orientali fino al Mediterraneo, attraverso l’Arabia Saudita. Il progetto prevede una ferrovia sino al porto di Haifa. E il porto di Gaza? Potrebbe, con Haifa, essere il terminale di questa nuova geografia del Mediterraneo!
Fare di Gaza il terminal basso della via del cotone potrebbe aggregare alla visione globale altri Paesi, a cominciare dall’Egitto, forse il Sudan. Insieme allo sfruttamento e alla commercializzazione comune delle risorse energetiche recentemente scoperte nel Mediterraneo, tra Gaza e Beirut, si potrebbe pensare Gaza quale polo commercial-industriale, capace di farne un posto vivibile per i suoi due milioni di abitanti, in sodalizio con israeliani, sauditi, giordani ed egiziani. Un sogno? Ma perché non metterlo chiaramente a tema, quale possibile e realistico orizzonte?
Perché porre la domanda oggi fa scattare, negli animi, qualcosa di atavico, di profondo. Malamente. Anche in noi, occidentali, «cristiani». Dai tempi delle Crociate, tre letture malate della storia esigono che quella terra sia una, promessa e persino santa per le tre religioni. Perciò quella terra non potrebbe essere, semplicemente, condivisa.
La risposta estrema è sempre «no», un «no» a tutto. «No» alla speranza, per effetto di una ragione superiore, immodificabile, che, di fatto, continua a dire «sì» solo alla distruzione. Naturalmente l’effetto d’animo funziona da una parte e dell’altra – e nella terza – senza soluzione. Papa Francesco ha giustamente parlato di «passioni». Funziona tutto, tranne ciò che dovrebbe essere il sentire più elementare: «Qui stiamo almeno in tre: sarà giusto trovare il modo per condividere, non per distruggerci!».
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A chi importa l’Unicità, la Promessa o la Santità? Riguarda chi ci crede, non tutti gli altri. Non ha senso imporre unilateralmente e in modo oppositivo questi termini. Esempi: perché spendere tanti soldi per colonizzare la Cisgiordania? Peraltro: perché chiamare alla lotta estrema chi vive a Gaza nel nome della Moschea di Gerusalemme? Non ha senso, per me. Oppure, Unicità, Promessa, Santità possono assumere altri significati – profetici – e divenire un orizzonte condiviso da due e da tre e da mille?
Gaza, in questo momento, dimostra il fallimento di visioni irriguardose dell’uomo, della storia, della cultura, tanto da trasformare un fazzoletto di terra in un pozzo di sangue. Arabi, Musulmani e Cristiani, vi abitano da secoli e secoli: chi dice che l’ebraismo è stato importato solo di recente o è in malafede o ignora che Gerusalemme in tutti i libri sull’epoca ottomana viene raccontata città a maggioranza ebraica. Lo Stato d’Israele esiste e ha diritto di esistere, ma sarà maggiormente riconosciuto se entro confini certi, rispettosi di altri confini. O no?
Non voglio avventurarmi in proiezioni e nelle partizioni possibili. Ma è la Confederazione israelo-palestinese la prospettiva che io vedo come la più sana: quella del partenariato che, in un pezzo di terra come quello di cui stiamo parlando, non ha alternative. Ma perché funzioni, deve finire, da ogni parte, l’estremismo.
Faccio un altro esempio. Oggi Israele – si dice – non avrebbe alternative rispetto all’occupazione militare di Gaza, perché un contingente arabo di pace non potrà mai essere proposto dalla comunità internazionale, ritenendolo gli arabi stessi una forza di supporto agli occupanti.
Ma se Israele e Sauditi, con Egitto e Giordania, accettassero e annunciassero un accordo sul porto di Gaza quale terminal regionale della via del cotone insieme ad Haifa e quale hub della commercializzazione del gas dei giacimenti del fianco Sud del Mediterraneo orientale – con Haifa hub del fianco Nord – la forza araba sarebbe ancora percepibile quale forza di supporto all’occupazione? Non sarebbe forse percepita come fu, da noi, la forza degli alleati dopo il ventennio fascista e la guerra?
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Gli abitanti di Gaza non sono diversi dagli altri esserli umani. Non sono amanti della sofferenza e della morte. Tale è solo la rappresentazione razzista convinta della demenza altrui. Ma gli altri non sono mai dementi. La strabordante vittoria di Riad sulla partita Expo lo dimostra. Immagino che, nel 2030, manager, maschi e femmine, prenderanno cocktail e faranno bagni al sole di Gedda, per poi andare a cene di gala, con champagne e prosciutto San Daniele, a Riad. Io non escludo che, per allora, gli sarà pure possibile visitare La Mecca: senza prosciutto e senza champagne, però.
I fanatismi non sono affatto finiti, ma sono, dunque, sfidabili. Mi sembra plausibile sostenere che il corso della storia gli possa voltare le spalle. Dalla loro hanno ancora la forza. La loro sconfitta può arrivare dal riconoscimento dei diritti e dal benessere dei popoli. Partiamo pure dalla verità clintoniana – «it is all about economy, stupid» – verità discutibile, cinica e persino pericolosa, ma pure premessa di un sano pragmatismo. Ciò non cancellerebbe, anzi recupererebbe, una visione pura della Promessa di Dio e della Santità della Terra: una Terra per tutti, per la glorificazione dell’immagine del Dio della Misericordia nell’umanità.
Alzare le spalle ora, perché troppo difficile, negare ogni possibilità, ragionare in termini del qui ed ora – o in termini di tornaconto elettorale – vuol dire assumere una grande responsabilità di fronte al corso della storia: avallare, e non contrastare, idee di distruzione e di morte. Io insisto sulla mia tesi: i cristiani d’Oriente hanno un enorme ruolo da svolgere, se vogliono essere protagonisti del cambiamento, non ruote di scorta di qualche arrogante potere locale!