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Agenda rossa

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Già mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti e i vigili del fuoco si davano da fare per mettere in sicurezza l’area in via d’Amelio, iniziavano i depistaggi. Uno dei primissimi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage, dopo la deflagrazione delle ore 16.58 del 19 luglio 1992, fu il sovrintendente Francesco Paolo Maggi.

«Uscii da… da ’sta nebbia… e subito vedevo che arrivavano tutti ’sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ’u stesso abito, una cosa meravigliosa. Proprio senza una goccia di sudore.»

Si trattava di «gente di Roma», appartenente ai servizi segreti. Francesco Paolo Maggi li aveva già notati a Palermo, presso gli uffici del dirigente della squadra mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci.

La versione di Maggi venne confermata da un altro poliziotto arrivato in via d’Amelio: Giuseppe Garofalo. Accanto alla blindata del dottor Borsellino c’era «un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa». Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo misterioso «si qualificava come appartenente ai servizi», mostrando anche un tesserino di riconoscimento. E che cercava la valigetta di Paolo Borsellino.

Che cosa conteneva per essere così attentamente cercata dagli uomini dei servizi, in un momento in cui non si aveva ancora nemmeno la certezza se il magistrato fosse morto? C’era l’agenda rossa. Borsellino «non [se ne] separava mai», portandola sempre nella sua borsa di cuoio e su di essa appuntava, in modo «quasi maniacale» e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano nell’ultimo periodo della sua vita. Nella vana attesa d’essere convocato dal procuratore capo di Caltanissetta, per essere sentito sulla strage di Capaci, riteneva che era giunto «il momento di scrivere». Che l’agenda fosse nella borsa quel giorno non c’è ombra di dubbio, che non fosse un parasole come qualche esperto sostenne anni dopo, anche. Altro dato certo che abbiamo proviene da un video girato sul luogo della strage e che mostra il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli con la borsa in mano, tra le 17.20 e le 17.30 del 19 luglio 1992. La sta portando in direzione dell’uscita di via D’Amelio, verso via Autonomia Siciliana. Dai filmati si può notare lo stato della borsa in mano ad Arcangioli: integra, asciutta e senza segni di bruciature. L’ultima persona a parlare della famosa borsa fu l’agente Francesco Paolo Maggi, che la notò, questa volta bruciacchiata e bagnata, di nuovo all’interno dell’auto di Borsellino. A quel punto l’agente la prelevò e la portò nell’ufficio del dirigente della mobile, Arnaldo La Barbera.

La borsa del magistrato venne restituita ai familiari, diversi mesi dopo la strage, in maniera del tutto «irrituale e frettolosa». Il dottor Arnaldo La Barbera si recò a casa della signora Agnese, moglie del dottor Borsellino, per la riconsegna della borsa, ma dell’agenda rossa nessuna traccia. La figlia Lucia, nella sua deposizione nel processo «Borsellino Quater», raccontò che quando La Barbera si recò a casa loro per riconsegnare la valigetta, lei gli chiese conto della scomparsa dell’agenda rossa. Il capo della mobile con «atteggiamento infastidito e sbrigativo» affermava, in maniera categorica, che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire e tacciò di follia Lucia Borsellino.

 

Per la sparizione dell’agenda rossa il carabiniere Arcangioli fu prima indagato, poi mandato a processo per furto aggravato dall’aver favorito l’associazione mafiosa Cosa nostra, quindi definitivamente prosciolto.

Fatto sta che l’agenda rossa non è nelle mani di chi potrebbe finalmente fare giustizia, mettendo insieme i tanti tasselli mancanti del puzzle della verità su questi anni. Ma esiste. Purtroppo sta nelle mani di chi, quella verità, proprio non la vuole raggiungere.

(Tratto da libro Traditori)

 


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