BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

A questo mondo non ci rassegneremo mai Intervista con Daniel McQuillan

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A ventidue anni dalla tragedia di Genova, in cui rimase vittima dell’inferno della Diaz e del lager di
Bolzaneto, il professor Daniel McQuillan, attivista in molteplici ambiti, a cominciare dalla battaglia
in nome dell’integrazione e del multiculturalismo, riflette insieme a noi su cosa abbia rappresentato
quel dramma collettivo nella sua vita e nelle nostre. Ma, soprattutto, analizza i semi della rivolta che
oggi sono diventati alberi, grazie all’impegno di ragazze e ragazzi che all’epoca erano appena nati e
che continuano a battersi per un altro mondo possibile e necessario. Dall’ambiente ad Assange,
senza dimenticare la lotta contro i cambiamenti climatici e gli effetti distorsivi dell’intelligenza
artificiale: una visione globale, quella di Daniel, ricca di spunti di riflessione e speranze per un
futuro diverso e migliore.
Per quale motivo sei venuto a manifestare a Genova? In che punto del tuo percorso di vita si
inseriscono le manifestazioni anti-G8?
Quando stavo facendo il mio dottorato in Fisica Sperimentale delle Particelle, alla fine degli anni
Ottanta, ero anche un attivista. Ho vissuto in uno squat e partecipato a lotte comunitarie ed
ecologiche, come le campagne contro la Poll Tax e contro McDonald’s. Verso la metà degli anni
Novanta ero politicamente inattivo da alcuni anni, ma quando il movimento per la globalizzazione
alternativa è entrato in scena volevo farne parte, così io e il mio amico Norman abbiamo deciso di
recarci a Genova per le proteste contro il G8.
A quali manifestazioni hai partecipato prima della duplice tragedia della Diaz e di Bolzaneto?
Con chi hai condiviso quell’esperienza?
Io e Norman eravamo lì per la marcia dei migranti del giovedì, che è stata energica e stimolante, e
per la protesta principale di venerdì, che è stata invece terrificante. Dopo le nostre esperienze di
venerdì, avevamo deciso di lasciare Genova il prima possibile, ma quando abbiamo saputo
dell’uccisione di Carlo Giuliani abbiamo concordato entrambi che dovevamo restare in segno di
solidarietà.
Parliamo dell’irruzione alla Diaz. Dov’eri e insieme a chi? Cosa ricordi di quei momenti e quali
sono state le tue sensazioni prima, durante e dopo?
Alloggiavamo in una stanza della scuola Diaz, in uno dei piani superiori. Vicino alla nostra stanza
c’erano alcuni laboratori scientifici che mi ricordavano davvero i miei giorni di scuola. L’edificio
era in fase di ristrutturazione ed era coperto da impalcature. Ci saremmo aspettati che la Polizia si
tenesse quasi in disparte durante la protesta del sabato, in modo che non ci fosse il rischio che
qualcun altro si facesse male ma è successo esattamente il contrario: la Polizia era come un esercito
invasore e ha attaccato ferocemente le manifestazioni con tutte le sue armi e veicoli. Era
sorprendente che nessun altro fosse stato ucciso. Eravamo molto preoccupati per cosa sarebbe
successo di sera, ma decisi che era più sicuro restare alla Diaz piuttosto che vagare per le strade a
cercare un modo per lasciare la città. Dopotutto, alloggiavamo in un posto affittato dal Genoa Social
Forum e il Media center era nell’edificio di fronte. La Polizia non avrebbe mai attaccato una
struttura ufficiale sotto gli occhi della stampa, vero? Comprammo una bottiglia di vino scadente e ci
sedemmo sull’impalcatura, guardando il sole tramontare su Genova.
Ho fornito un resoconto completo della notte del raid nella mia dichiarazione, scritta circa una
settimana dopo, e la potete trovare ancora sul mio blog.

A Bolzaneto una delle caratteristiche ricorrenti era il freddo. A te gettarono addosso anche un
secchio d’acqua gelata per peggiorare la situazione. Mi sono sempre domandato quanto quel
freddo fosse atmosferico e quanto fosse, invece, dettato dalla paura. Racconta quell’esperienza e
il suo tormento.
Il mio ricordo delle notti nella cella di Bolzaneto è che faceva molto freddo. Indossavo solo una
maglietta sottile e pantaloncini ed entrambi erano coperti di sangue. Ho avuto la fortuna di avere un
sacco a pelo che mi avevano dato i medici dell’ospedale proprio mentre venivamo trascinati fuori
da lì dalla Polizia, e l’ho condiviso con uno degli altri manifestanti che sembrava
gravemente ferito e aveva difficoltà a respirare attraverso il naso e la bocca insanguinati. Non
volevo sembrare spaventato davanti agli altri prigionieri, anche se ovviamente lo ero, perché sentivo
che era importante che tutti noi fossimo forti per poterci sostenere a vicenda. Tuttavia, tremavo in
modo incontrollabile. Come ho detto nella mia dichiarazione, penso che questa fosse una
combinazione di shock, perdita di sangue e del fatto che mi fosse stato gettato addosso un secchio di
acqua gelata. Mi sento ancora umiliato dal fatto di non essere riuscito a trattenermi.
L’accoglienza dei migranti è uno dei cardini della tua vita. Che cos’è “Mulikulti” e cosa sono gli
“hack days”?
“Multikulti” era un progetto per fornire ai rifugiati e ai richiedenti asilo nel Regno Unito
informazioni essenziali, ad esempio come farli accedere a un medico e come mandare i propri figli
a scuola. Le informazioni sono state tradotte in circa quattordici lingue e ospitate su un sito web.
Quando abbiamo iniziato il progetto il web era ancora sconosciuto a molte persone e così ho dovuto
spiegare il concetto di pagina web ad alcuni membri della comunità, disegnandolo su un pezzo di
carta. Avevo un po’ di esperienza con il codice e la creazione di siti web e mi sono reso conto che
era diventato possibile creare una pagina web multilingue, soprattutto quando lo standard Unicode
ha iniziato a diffondersi. Ma la vera innovazione di “Multikulti” è stata proprio il fatto di essere
gestita dalla comunità. Avevamo un consiglio composto da persone provenienti da ciascuna delle
diverse comunità per le quali stavamo traducendo e prendevano le decisioni sulla strategia del
progetto. I membri più attivi del progetto sono stati i traduttori, organizzati da Njomeza, che ne era
la coordinatrice; ci hanno raccontato cosa stava realmente accadendo sul campo e ciò di cui le
comunità avevano realmente bisogno. Il termine “hackdays” veniva utilizzato per riunioni informali
in cui si riunivano persone con una certa conoscenza tecnica per provare a creare strumenti nuovi e
inaspettati con le tecnologie emergenti del web, della telefonia mobile e così via. All’inizio era solo
un’attività per esperti di tecnologia e tipi strani. Tuttavia, era abbastanza chiaro che il web avrebbe
avuto un grande impatto sociale e alcuni di noi si sono resi conto che gli “hackdays” avrebbero
potuto diventare esperimenti di innovazione sociale se avessimo riunito persone esperte di
tecnologia e coloro che avevano dei bisogni sociali o un’idea su come affrontare un bisogno sociale.
Avviammo, dunque, un progetto chiamato “Social Innovation Camp” che ha organizzato proprio
questo tipo di eventi. Ho finito per organizzare campi di innovazione sociale in Kirghizistan,
Georgia, Armenia e a Sarajevo, in Bosnia.
Quindi è lì che hai conosciuto tua moglie Njomeza! Cosa vuol dire per condividere l’esistenza
con una donna che ha visto e subito tutto quell’orrore?
Sì, ho conosciuto Njomeza, profuga del Kosovo, quando ha aderito al progetto “Multikulti”.
Eravamo colleghi di lavoro ma alla fine è diventato un luogo di lavoro romantico, come si suol dire.
Uscivamo insieme solo da pochi mesi prima che andassi a Genova. Certamente io sapevo qualcosa
di quello che era successo in Kosovo, soprattutto dalle notizie, ma sfortunatamente non avevo
pensato a cosa
avrebbe potuto significare per lei se fossi andato a Genova e fossi rimasto coinvolto in una

repressione violenta. Njomeza me lo disse in seguito: quando vide le riprese televisive delle
manifestazioni, ebbe un immediato flashback degli eventi in Kosovo e mi mostrò persino la foto su
un giornale di una protesta avvenuta a Prishtina (la capitale del Kosovo), in cui la polizia
paramilitare serba
che attaccava la folla somigliava esattamente alla polizia di Genova. Vorrei che ne avessimo
discusso di più prima di partire.
Per i primi mesi dopo il ritorno da Genova pensavo di star bene. Ero scappato dall’orrore e per gran
parte del tempo mi sentivo euforico semplicemente per il fatto di essere vivo e libero. Tuttavia,
Njomeza aveva tradotto per molti rifugiati kosovari che erano fuggiti dai massacri negli anni
Novanta e conosceva meglio di me gli effetti del disturbo da stress post-traumatico. Mi ha
incoraggiato a cercare un supporto psicologico, ma è stato solo dopo che sono stato intervistato
presso la Medical Foundation for the Care of Victims of Torture che ho davvero accettato di aver
bisogno di aiuto. Ero il tipo di persona che non piangeva davvero, un uomo stereotipato; fatto sta
che, dopo l’intervista, ho pianto in modo incontrollabile per strada. Grazie a Njomeza ho potuto
trovare diversi tipi di aiuto per avviare il processo di guarigione.
L’Europa oggi è una fortezza: fili spinati, respingimenti, una politica migratoria priva di ogni
umanità. Sembra quasi che le speranze di Genova siano state interamente tradite…
La repressione a Genova faceva parte di uno sforzo calcolato per spezzare la nuova ondata di
movimenti sociali. Certamente, mi ha quasi distrutto. Alla fine della mia dichiarazione su Genova,
scritta nel luglio 2001, ho detto che le mie esperienze mi hanno indotto a temere il ritorno del
fascismo in Europa. Anche questo è avvenuto. Tuttavia, come ho detto anche nel comunicato, mi ha
ispirato pure l’effusione di solidarietà e cura che abbiamo sperimentato in seguito. Ci sono molti
movimenti sociali in tutto il mondo che stanno ancora spingendo per un futuro migliore, basato
sulla solidarietà, sul mutuo aiuto e sulla sostenibilità, e io continuo a essere ispirato da loro.
Due guerre bussano alle nostre porte, dopo vent’anni di tentativi di “esportare la democrazia”
che ci hanno condotto al punto in cui siamo. In mezzo, gli attentati di Londra, la Brexit e
l’inquietante vicenda di Julian Assange. Voi inglesi dite: “Giusto o sbagliato, questo è il mio
Paese”. Che giudizio dai dell’Inghilterra, alla vigilia delle elezioni del prossimo anno?
Personalmente non ho mai parlato del “mio Paese” perché ho sempre creduto che il nazionalismo
sia parte del problema. Sfortunatamente, l’Inghilterra è attualmente un caso di studio del
nazionalismo bigotto, dove l’élite rapace è riuscita a convincere un numero sufficiente di persone
che il collasso dei posti di lavoro, dell’assistenza sanitaria e delle infrastrutture sia dovuto ad alcuni
richiedenti asilo impotenti piuttosto che ai furti massicci da parte dei potenti. Ciò detto, è anche
vero che la gente comune dell’Inghilterra ha una lunga storia di accoglienza dei rifugiati e di
ribellione contro l’ingiustizia. Forse ci sono alcuni segnali di speranza: per esempio, non avrei mai
pensato che qualcuno, al di fuori dell’attivismo, conoscesse il termine “mutuo aiuto” e invece,
durante il Covid,
stavano nascendo gruppi di mutuo soccorso ovunque.
Genova, per l’Italia, è stata uno spartiacque. E per te? Come sei cambiato da allora e quali sogni
coltivi oggi per te stesso e per la tua famiglia?
Sono sicuro che Genova sia stata trasformativa per me, ma anche adesso è difficile dire esattamente
in quali modi. Dopo che sono tornato, Njomeza e io ci siamo sposati e abbiamo messo su famiglia,
il che rappresenta un enorme cambiamento nella vita di chiunque.
Sogno un mondo migliore per me e per i miei figli e sappiamo che i giovani in generale
continueranno a lottare per questo. È difficile vedere un modo per superare l’intensificarsi della

crisi climatica, ma trovo che il genere Solarpunk della narrativa speculativa abbia una visione
positiva che esprime
diversità e solidarietà, senza negare l’inevitabilità di una sorta di collasso.
Sei rimasto in contatto con qualcuno di coloro con cui hai condiviso quel dramma e il successivo
percorso processuale?
Sono ancora amico di Norman Blair; abita a circa dieci minuti a piedi da me. Attualmente, è un
insegnante e guru dello yoga molto conosciuto. Negli anni delle vicende giudiziarie, siamo stati in
stretto contatto con Nicola Doherty e Richard Moth, gli altri inglesi coinvolti nell’inferno della
Diaz, ma ho perso i contatti con loro. All’inizio di quest’anno, il Disruption Network Lab di Berlino
ha organizzato un evento intitolato “Rivisitare il G8 di Genova del 2001: un altro mondo è possibile
e necessita di un altro tipo di calcolo” con un panel del sottoscritto, Carlo Bachschmidt, che ha
organizzato con il Genoa Legal Forum e poi ha diretto il documentario Black Block a cui ho preso
parte, e un altro attivista (“MF”) che è stato coinvolto nel raid Diaz ma che è ancora pieno di
energia ribelle dopo tutti questi anni.
Tu sei anche un docente universitario. Che giudizio dai dei giovani di oggi? Cosa ne pensi del
loro attivismo in nome dell’ambiente e dei diritti umani? In cosa sono simili e in cosa sono
diversi da voi?
Temo di non avere un’opinione generale del gruppo eterogeneo noto come “giovani di oggi”, pur
sapendo che alcuni giovani crederanno sempre abbastanza nella possibilità di un mondo migliore, al
punto di lottare per esso.
L’ho visto direttamente durante i lunghi scioperi nella mia università, dove siamo stati sostenuti
dall’attivismo degli studenti che si rendono conto che è in gioco il futuro dell’istruzione. Oggi sono
attivo principalmente scrivendo dell’impatto sociale dell’intelligenza artificiale e della necessità di
resistervi, e alcuni giovani sembrano interessati al libro che ho scritto. È fantastico
vedere così tanti giovani coinvolti nell’attivismo radicale per il clima, ma in un certo senso tutto
l’attivismo di questi tempi lo è, a cominciare dall’attivismo climatico: che si tratti delle ZAD (Zone
à défendre) in Francia, delle lotte indigene contro gli oleodotti negli Stati Uniti o della rivolta
autonoma in Rojava. La lotta contro le Big Tech è anche una lotta climatica, soprattutto a causa
delle loro enormi dimensioni di consumo energetico e idrico, dell’intelligenza artificiale e delle loro
operazioni coloniali, e spero che potremo incoraggiare una nuova generazione di luddisti.


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