Questo 2023 che volge al termine sarà ricordato come l’anno di Giulia Cecchettin. Non entriamo nel merito della tragedia, non menzioniamo neanche il nome dell’assassino né, meno che mai, le sue presunte ragioni. Non ne ha, non ce ne sono. Menzioniamo, piuttosto, sua sorella Elena e suo padre Gino, fari accesi nella notte del Paese. Non sorprende che siano stati oggetto, e sempre più lo saranno, di attacchi beceri e indecenti. Non sappiamo per chi votino politicamente e non ci interessa, ma sappiamo bene cosa rappresentino. Elena e Gino incarnano il meglio dell’Italia. Elena, la sorella, stravolta dal dolore ma non vinta, che ha la forza di presentarsi davanti alle telecamere e battersi contro le piaghe del patriarcato e del maschilismo, trovando la forza di una denuncia limpida e dirompente nella melassa di una società addormentata. Gino, che cita in chiesa una poesia di Gibran e parla d’amore, del bisogno che ce ne sia sempre di più, della necessità di dire più spesso “Ti amo” alla persona che ci sta accanto, di rifiuto dell’odio e della barbarie, dell’esigenza di costruire insieme una società migliore. Queste due persone, al pari di Davide, l’altro fratello di Giulia, costituiscono una famiglia straordinaria e un esempio per tutte e tutti noi. Ci costringono, infatti, a fare i conti con la nostra miseria morale, con le nostre piccolezze, con le nostre arrabbiature per un nonnulla, con le nostre grida insensate, con la nostra furia cieca, con la nostra incapacità di vivere in comunione con gli altri, con la nostra pochezza e, di conseguenza, con il nostro fallimento collettivo. Ci pongono davanti agli occhi il mondo come dovrebbe essere: la responsabilità che viene prima persino della giustizia, il rifiuto della vendetta, la pietà umana, l’ascolto, il dialogo e il confronto. Se esiste una forma di resistenza possibile all’orrore con cui siamo chiamati a confrontarci ogni giorno, va cercata qui. Elena e Gino, difatti, hanno messo in moto una marea che non si fermerà. Non sappiamo se sia in grado di trasformarsi in proposta politica ma, di sicuro, incarna un cambiamento culturale e di mentalità, anche perché ha portato in piazza centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che nessuna organizzazione di quelle che conosciamo sarebbe mai riuscita a mobilitare.
Non così, almeno, non per così tanto tempo. Il rumore al posto del silenzio, la passione civile al posto dell’ipocrisia, la battaglia a viso aperto anziché il dolore privato, il metterci la faccia, benché distrutta, contro ogni sopruso e bruttura: questo rappresentano Elena e Gino e per questo a una pezzo della società, la sua parte peggiore, fanno paura. Non a caso, abbracciare il loro modo di fare e di essere significa voler cambiare davvero, voler assumere un ruolo nel mondo, non tirarsi indietro; significa guardare negli occhi l’orrore e cercare di sconfiggerlo con la sola forza di parole gentili e convincenti.
Vi confesso che Gino Cecchetin, ogni volta che parla, mi destabilizza. Prima di lui, c’erano riuscite soltanto tre persone: Lena Zühlke, raccontando la notte della Diaz con un sovrumano amore per il prossimo e per la Nazione che l’aveva quasi ammazzata, ad appena ventiquattro anni, Edith Bruck, reduce di Auschwitz, e Carmen Yáñez, torturata a Villa Grimaldi dal regime di Pinochet. Mi avevano sconvolto il loro desiderio di vivere e testimoniare, la loro forza d’animo, la loro incredibile attenzione nei confronti di chi legge e ascolta, la loro bontà e il loro saper guardare avanti, pur avendo il diritto di odiare il mondo intero. Ma queste persone, proprio come Gino e la sua famiglia, non odiano mai. Sono un concentrato di pura meraviglia, di amore per il concetto stesso d’amore, di poesia interiore, e pongono la propria sofferenza al servizio di una causa nobile: la ricostruzione del nostro stare insieme. Il tutto nell’anno in cui uno splendido film di Paola Cortellesi, intitolato “C’è ancora domani”, ottiene un successo clamoroso di pubblico e di critica, restituendo speranza e senso della lotta collettiva a generazioni che non hanno mai avuto la fortuna di incontrare la politica intesa nella sua accezione più nobile.
La poesia di Gibran letta da Gino ai funerali della figlia recita: “Il vero amore non è né fisico né / romantico. Il vero amore è / l’accettazione di tutto ciò che è, è / stato, sarà e non sarà. Le / persone più felici non sono / necessariamente coloro che / hanno il meglio di tutto, ma / coloro che traggono il meglio da / ciò che hanno. La vita non è / una questione di come / sopravvivere alla tempesta, ma / di come danzare nella pioggia”. Danzeremo ancora, ve lo promettiamo, soprattutto ora che abbiano incontrato persone ineguagliabili che ci hanno ricordato quanto potrebbe essere bello il nostro cammino se solo riscoprissimo la levità di un passo di danza.