Il risultato delle elezioni presidenziali di ieri nel grande paese sudamericano (“il più europeo del continente”) richiama più un esorcismo che una scelta politica mediamente chiara e consapevole. Traghetta l’Argentina verso una proclamata mutazione genetica, che nessuno in concreto conosce e neppure sa se infine davvero avverrà. Un’ampia maggioranza (55,7%) porta alla Casa Rosada Javier Milei, 53, l’eccentrico economista anarco-liberista semisconosciuto fino a pochi mesi addietro, che promette di cambiare tutto e subito senza però saper dire attraverso quali procedure tecnico-giuridiche e con quali uomini. Non dispone d’un partito, bensì solo di un agglomerato elettorale ad assetto variabile, finanziato per vie oblique; e ha presentato un programma cancellato e ripristinato di comizio in comizio, fermo solo nella sua conclamata volontà di seppellire il ceto politico sotto le macerie dello stato ridotto al solo pianoterra.
Tuttavia cosi è andata e il peronismo governante (che di esperienze surreali è tutt’altro che digiuno) ne ha preso immediatamente atto, in nome della democrazia e delle buone maniere. Il suo candidato, lo sconfitto Sergio Massa, 51, formalmente ancora ministro dell’Economia fino al prossimo 10 gennaio, data dell’insediamento ufficiale del nuovo capo di stato, ancora nella scorsa notte, con risultati netti ma non definitivi, ha dichiarato che a partire da oggi “le risposte alla crisi spettano ai vincitori”, ai quali ha augurato buon lavoro. Il reale non cessa di avere la sua razionalità… 14 milioni e mezzo di argentini hanno preferito farsi governare dal presidente meno prevedibile della loro storia patria, un personaggio che si è reso protagonista d’una rappresentazione fantasy sulla scena della politica nazionale. Non importa il rischio, qualsiasi incognita, pur di rifiutare un esistente doloroso, sovraccarico di ripetute, fosche penurie e assillanti insicurezze.
Oggi Buenos Aires vive già il giorno dopo. La città delle grandi avenidas e dei caffè tra plaza de Mayo e zona Norte, dagli uffici di ministeri e multinazionali alle residenze miliardarie, appare immersa in una primavera quasi estiva, un po’ insonnolita dalla tesa notte elettorale e un po’ sovraeccitata dall’ansia di un ignoto futuro prossimo. In cui, per un paradosso solo apparente, sguazzano i rituali più ovvi della solita politica: telefonate incrociate, incontri segreti, richieste, proposte, accordi, promesse. Con un nome sempre ricorrente che riporta alla realtà meglio conosciuta e consunta: quello di Mauricio Macri, progressivamente avvicinatosi a Milei negli ultimi mesi, fino a divenirne apertamente il nume tutelare e il collegamento diretto con il circuito del grande capitale argentino. Non tirandosi indietro neppure di fronte al prezzo di spaccare PRO, il partito fondato da lui stesso, perdendone la parte moderata; e incrinare il rapporto familiare con il cugino Jorge Macri, 59, sindaco eletto della capitale (assumerà anch’egli il prossimo 10 gennaio).
L’ex presidente (2015-19), il cui impagabile debito di 44mila milioni di dollari lasciato in eredità al governo peronista ne ha segnato fin dall’inizio la sorte, viene comunemente indicato in queste ore come l’altro vincitore della consultazione di ieri. Forse di quello che maggiormente potrà trarne profitto. Ciò che certamente a lui non dispiace. Forte e notorio com’è il suo sentimento di rivalsa nei confronti di avversari e amici, rivali e familiari dai quali si è sempre sentito più sottovalutato che apprezzato. Una condizione dell’animo che prescinde dalla politica e in misura sorprendente lo avvicina all’intimo a Javier Milei. L’uno e l’altro, infatti, sono cresciuti ciascuno accanto a un padre autoritario, di potente narcisismo, una specie di padre-padrone che li ha sempre stimolati alla sfida e alla competizione per poi puntualmente negare fiducia alle loro iniziative. Con il risultato che entrambi non nascondono l’avversione per il rispettivo genitore, Milei ne ha fatto un caso pubblico e notorio.
Non meno innegabili, però, più che mai concrete e pressanti, si presentano le urgenze del quadro economico-sociale e dei rapporti tra le istituzioni. Drammatici gli equilibri finanziari, con l’inflazione e il debito pubblico alle stelle, l’indigenza che colpisce 4 argentini su 10. E’ l’intero contesto argentino e latinoamericano ad essere entrato in una fase storica di difficoltà strutturali da ancor prima del collasso provocato dal COVID. Un dato essenziale del tutto taciuto nella campagna elettorale e ancora in queste ore. L’ Argentina, che nel ritardato sviluppo del subcontinente americano è stato un paese di punta, è in fase di deindustrializzazione crescente. Perde posti di lavoro, qualificazioni professionali e valore aggiunto. Cade il potere d’acquisto dei salari, anche al netto del drenaggio esercitato dall’inflazione. Senza che riesca ad attrarre tanto sul mercato interno quanto dall’estero gli investimenti indispensabili all’ammodernamento del sistema produttivo che l’inserimento delle nuove tecnologie ha avviato nel nord del mondo fin dall’indomani della crisi finanziaria del 2008.
Tutti i massimi organismi internazionali, dalle specifiche commissioni delle Nazioni Unite al Fondo Monetario, alle grandi fondazioni e agli uffici studi del sistema bancario internazionale, indicano all’unanimità nelle enormi disuguaglianze sociali dell’America Latina la causa principale delle sue nuove drammaticissime difficoltà. L’Argentina ne è l’esempio circostanziale. Il nuovo presidente e la coalizione politica che si apprestano ad assumerne il governo, almeno fino a oggi propongono di farvi fronte riducendo drasticamente la già insufficiente spesa pubblica (sanità ed educazione in primis), dollarizzando l’economia, vietando l’aborto, liberalizzando il commercio di organi umani e delle armi personali. “Eviteremo esitazioni e mezze misure”, ha ripetuto Javier Milei, nella sua inarrestabile retorica massimalista priva di spiegazioni comprensibili ai più. Mauricio Macri ha detto più volte di rimproverarsi solo di una cosa nei suoi anni di governo: la moderazione.