Hrant Dink, intellettuale di spicco del movimento per i diritti civili in Turchia, era un giornalista con la schiena dritta e il cuore palpitante di coraggio. Caporedattore di Agos (‘il solco’), settimanale bilingue di cui negli anni ‘90 fu tra i fondatori, dalle pagine del giornale provava ad aprire nuovi canali di dialogo tra la comunità armena e la popolazione della Turchia. Per il suo impegno contro il nazionalismo turco fu assassinato il 19 gennaio del 2007.
Ieri il suo carnefice, Ogün Samast, è stato rilasciato senza aver scontato tutta la pena che gli era stata inflitta per il suo omicidio. L’ennesima beffa della giustizia in Turchia che oltre a lasciare libero Samas, reo confesso allora 17enne, non ha mai individuato è punito i mandanti dell’assassinio, annidati nei circoli ultra nazionalisti.
La maggior parte dell’opinione turca è apparsa sconcertata e indignata perché non sapeva che la sua libertà vigilata stava per scadere e che presto sarebbe stato del tutto scarcerato.
C’è quindi un certo elemento di sorpresa, ma se si guardano i fatti del caso e l’attualità del paese – politici, giornalisti tenuti in prigione con accuse inventate e ai quali viene negata la libertà condizionale per ragioni del tutto arbitrarie – l’indignazione e il sentimento di grave ingiustizia sono giustificati.
Un elemento chiave è che a Samast non è stata comminata un’ulteriore pena detentiva per appartenenza a un gruppo terroristico, anche se, cosa importante, l’ultimo nuovo processo, che tra l’altro è ancora in corso, era interamente basato sulla premessa che l’omicidio di Dink fosse un crimine pianificato. e perpetrato da FETO. un’organizzazione ritenuta eversiva. In qualche modo la persona che ha effettivamente commesso l’omicidio non è stata considerata parte di un’attività terroristica e quindi gli è stata comminata una condanna più leggera di quella che avrebbe dovuto ricevere in primo luogo. Tutto ciò accade mentre altri cittadini turchi possono essere facilmente condannati per appartenenza a gruppi terroristici, semplicemente per aver partecipato a proteste o per aver pubblicato tweet.
Il fatto che si sia “comportato così bene” da essere ritenuto degno di libertà condizionale, anche se era stato condannato a più di cinque anni di prigione per aver aggredito e ferito le guardie carcerarie con un coltello alcuni anni fa, non sembra molto convincente.
Ma, cosa ancora più importante e grave, il suo rilascio manda il messaggio forte e chiaro: l’omicidio di Hrant Dink non verrà adeguatamente indagato e i responsabili non saranno chiamati a risponderne.
Dink era un uomo di dialogo e di pace, si è battuto fino all’ultimo giorno della sua vita per la riconciliazione turco-armena, ma non ha sempre denunciato con determinazione gli abusi e i crimini di uno Stato che vessava le minoranze.
Questa è stata la sua condanna: Dink è stato assassinato a Istanbul davanti alla redazione di Agos, dopo una lunga campagna denigratoria e di linciaggio mediatico.
Il giornalista iceveva continue minacce dagli ultranazionalisti turchi ed era stato condannato a sei mesi di reclusione in base all’articolo 301 del codice penale, che sanziona “l’insulto alla Turchità”.
Il processo, durato oltre di dieci anni, è stato caratterizzato da depistaggi e insabbiamenti, e si è concluso con la condanna di alcuni degli imputati, ma i mandanti non sono mai stati identificati.
Hrant Dink è diventato così il simbolo della sete di giustizia in un paese costellato fin dalla sua nascita da una lunga scia di omicidii ispirati dall’odio razziale, dal fanatismo nazionalista fomentato da elementi appartenenti a reti politico-religiose che in quegli anni operavano all’interno dell’amministrazione dello stato.
A rilevare la mancanza di volontà di fare giustizia sull’assassinio di Dink fu l’ex capo dei servizi segreti turchi Ali Fuat Yılmazer.
In una udienza del 2016 aveva dichiarato che le autorità di sicurezza di Istanbul e di Trabzon sapevano dell’esistenza di un piano per uccidere il direttore di Agos e che volutamente non erano intervenuti per sventare quel crimine.
“Questo omicidio è stato voluto”, disse Yılmazer. “La polizia è colpevole di omissione di atti di ufficio. Lo Stato non ha svolto il suo dovere. I servizi segreti all’interno dello Stato sapevano e non si sono mossi per proteggere Dink” il suo atto di accusa.
Quel pomeriggio del 19 gennaio del 2007, Hrant Dink usciva come tutti i giorni dalla sede del suo quotidiano Agos nel quartier di Sisli. Fu freddato da tre colpi di pistola esplosi da distanza ravvicinata. Il suo killer, Ogün Samast, fu denunciato alla polizia da suo padre dopo che un filmato delle telecamere di sicurezza della zona ne avevano mostrato il volto fu diffuso dai media.
Samast, allora diciassettenne, aveva abbandonato le scuole superiori ed era disoccupato. Fu catturato dalla gendarmeria in borghese alla stazione degli autobus di Samsun, una città del Mar Nero.
Samast condannato a 23 anni e 10 mesi di carcere nel 2011, è stato in carcere per 16 anni e oggi è libeto per la sua “buona condotta durante un periodo di prova in libertà vigilata dall’amministrazione penitenziaria”.
Samast è stato l’unico a pagare per l’uccisione di Dink, ma lui era solo il braccio armato
delle frange del nazionalismo estremo che volevano il giornalista morto.