La modifica costituzionale della forma di governo attraverso il cambiamento dell’articolo 92 della Costituzione e la proposta di legge elettorale con premio di maggioranza che vi si trova allegata rappresentano un passaggio per il governo di destra che deve essere considerato “strategico”.
L’aver scelto per l’elezione diretta l’opzione “premierato” rispetto a quella “presidenziale” significa aver definito un giudizio di fondo rispetto al tema tanto discusso della governabilità.
A questo punto il progetto è ancora monco di un tassello: quello relativo alla soluzione da dare nel caso in cui il premier eletto perda la fiducia della sua maggioranza (che dovrebbe consistere nel 55% dei seggi parlamentari assegnati alla coalizione o al partito che avrà ottenuto la maggioranza relativa: e questa sarà sicuramente materia di studio per la Corte Costituzionale).
L’impianto complessivo però appare delineato in evidenza ed è evidente che si tratta del superamento della flessibilità/adattabilità delle forme parlamentari di governo introducendo invece elementi “forti” di rigidità (senza dimenticare l’idea di riservare ai soli parlamentari la possibilità di essere incaricati della presidenza del consiglio: altra materia per l’Alta Corte).
A questo punto è possibile portare avanti obiezioni molto semplici: la prima attiene alla maggioranza non assoluta che può eleggere il primo ministro che resterebbe così imperfettamente legittimato; la seconda riguarda l’assenza di indicazioni di modalità con le quali la non-maggioranza che avesse eventualmente eletto il presidente del consiglio godrebbe in parlamento del 55% dei seggi; la terza riguarda la macchinosità della procedura di una eventuale sfiducia e il tema del rapporto con il Presidente della Repubblica (che rimarrebbe di elezione parlamentare).
La destra di governo non dispone dei numeri parlamentari sufficienti per evitare il referendum confermativo (su cui caddero i due tentativi del 2006 e del 2016) anche inglobando eventualmente i voti dei centristi di Italia Viva e Azione.
E’ dunque probabile che ci si debba attrezzare per un voto popolare.
Per arrivare a quella scadenza raccogliendo le forze sufficienti a impostare un confronto vincente è necessario che dall’opposizione si avvii da subito un ragionamento posto proprio sul terreno del rapporto rappresentanza/governabilità/ruolo del Parlamento: un dibattito necessario ma del tutto trascurato nel tempo.
Attorno agli anni’70-’80 del secolo scorso era partito il dibattito sul cosiddetto “eccesso di domanda”: dalla società saliva ormai verso la politica la richiesta di un consolidamento e di un allargamento dei meccanismi universalistici del welfare e salivano di tono le rivendicazioni operaie in tema di salario e garanzie del lavoro; richieste ormai non più riservate a determinate e precise aree dell’Occidente capitalistico.
La risposta è stata duplice: da un lato la spinta a recuperare il ruolo prioritario degli “spiriti animali” del capitalismo attraverso il lancio di una forte controffensiva portata avanti su entrambe le rive dell’Atlantico attraverso le opzioni di un “liberismo selvaggio”; dall’altro lato la spinta a ridurre il rapporto tra politica e società attraverso il taglio del cosiddetto “eccesso di domanda”.
Nasce da questo punto il dibattito sulla “governabilità” e la ricerca di nuove forme – autoritative – di governo e sorge anche una distinzione tra “governance”, espressione di un potere articolato sul territorio per rispondere, spezzettando le diverse problematiche, in maniera sostanzialmente neo-corporativa ai bisogni espressi dai ceti sociali più forti e “governement” utilizzato per normalizzare le dinamiche sociali più fortemente conflittuali, attraverso l’espressione di un potere centrale fortemente concentrato e posto, attraverso opportuni tecnicismi che dovrebbero includere anche la legge elettorale, al riparo da dibattiti giudicati inopportuni.
Nessuna risposta, insomma, in termini di allargamento democratico, di ruolo delle istituzioni rappresentative, di presenza dei soggetti intermedi (partiti, sindacati), la cui funzione nel frattempo è stata ridotta al solo rango di selezionatori del personale di governo, provvisti di denaro ed elargitori di “incentivi selettivi” e non certo di soggetti propositori della rappresentanza politica e sociale.
Si sono così smarrite le coordinate di fondo dell’appartenenza sociale e del legame diretto tra questa e l’appartenenza politica, si è perso il ruolo di sede di confronto dialettico da parte del Parlamento e l’idea di “governo” come esecutivo è via, via evaporata fino a ricomparire il fantasma della stabilità: una sorta di “Pax romana” della politica che proprio l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dovrebbe definitivamente istituzionalizzare.
Ed è sull’impedire questo passaggio che è necessario che l’opposizione sviluppi la propria iniziativa nel Parlamento e nel Paese.