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“Notturno Libico”. L’incubo persecuzioni

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Torture, linciaggi, massacri, saccheggi di case, negozi e sinagoghe. I beni confiscati. Troppo spesso la storia si trasforma in un incubo. “Notturno Libico” racconta un doppio incubo: la persecuzione degli ebrei libici costretti alla fuga dal loro paese e il calvario di Giulio e Jasmine a Tripoli.

«È una vicenda dura ma finisce bene!» dice Raffaele Genah al vostro cronista. Aggiunge: «Andava raccontata». “Notturno Libico”, editore Solferino, è per metà un saggio e per metà un romanzo. Scorre velocemente per 186 pagine. Genah, giornalista di lungo corso, specialista di Medio Oriente, rievoca una storia drammatica di oltre 50 anni fa: la “caccia all’ebreo” scatenata in Libia nel 1967 (dopo la Guerra dei Sei Giorni in Israele) e nel 1969 (dopo il colpo di Stato di Muammar Gheddafi).

Ha incontrato e fatto parlare Giulio e Jasmine, all’inizio recalcitranti a rievocare quegli anni di dolore. I due protagonisti sono marito e moglie, sono innamoratissimi. Costituiscono l’anima del libro. Si alternano ad ogni capitolo per raccontare “in presa diretta” come cominciò l’incubo (l’assalto di una folla inferocita allo loro casa a Tripoli), come si sviluppò (Giulio in carcere per 4 lunghi anni), come finì (Jasmine mobilitò mari e molti per salvare il marito). Sono emozionatissimi quando illustrano la loro odissea alla presentazione del libro a Roma assieme all’autore.

Giulio è prelevato di notte nel 1969 da due agenti della polizia segreta libica da casa sua senza alcuna spiegazione. Lo portano nel carcere di Bab Ben Ghashir o di Porta Benito (nome in memoria dell’epoca coloniale italiana nell’era fascista). È recluso assieme a una moltitudine di dissidenti ed oppositori della dittatura. Nel libro si legge: «Da qui comincerà il mio viaggio nell’abisso». Subisce di tutto: torture, botte, tradimenti, guerra psicologica. Nessuna accusa, nessuna imputazione ufficiale. Domanda al direttore della prigione perché sta lì senza un’accusa. La risposta è beffarda. Gli chiede il suo nome e commenta: «Allora sei condannato a tre anni perchè non mi piace il tuo nome». In definitiva passa da una cella all’altra solo perché è di religione ebraica. Alla fine intuisce che l’hanno catturato perché lo ritengono un indomito generale israeliano. Resiste, incute rispetto. Fa perfino amicizia con alcuni agenti di guardia e con alcuni detenuti arabi.

Jasmine si batte con coraggio ma la picchiano, le impediscono perfino di vedere il marito. Riesce ad andare dai parenti a Roma con i due figli piccoli e da qui continua a combattere per salvare il marito. Per tre anni è buio fitto, non sa neppure se sia vivo o morto. Contatta avvocati, diplomatici, ministri tunisini, ufficiali e ministri libici. Chiede aiuto al Vaticano, alla Croce Rossa, ad Amnesty per premere sul governo libico. Niente. Tutti le ripetono: «Contro suo marito non ci sono accuse». Va a Tripoli, a Tunisi, a Parigi. Sfiora la morte. Nella capitale francese un avvocato indica la strada dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) per cercare di salvare Giulio. Ma c’è un imprevisto da libro giallo.

Alla fine Jasmine riesce nell’impresa impossibile di liberare il marito. Giulio esce dal carcere forse per l’intervento dello stesso colonello Gheddafi.

Genah è particolarmente colpito dalla vicenda forse perché ha vissuto una storia analoga. Anche lui è ebreo e, poco più che bambino, fu costretto a lasciare la Libia con tutta la famiglia potendo portare via solo una valigia e 20 sterline. Tornerebbe a Tripoli? La risposta è sintetica: «No. A Tripoli ci ho passato l’adolescenza, ora mi è indifferente». In “Notturno Libico” si legge: «Un vecchio detto paragona gli ebrei ai canarini nelle miniere. Quando non se ne vedono più in giro vuol dire che l’aria si è fatta irrespirabile. In Libia non ci sono più né canarini né ebrei». Non solo. La Libia è dilaniata da una sanguinosa guerra civile con l’intervento militare di Turchia e Russia a sostegno delle diverse fazioni.


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