Campidoglio Sala della Protomoteca
Premio giornalistico Colombe d’oro per la Pace 2023 assegnato dall’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo
Intervento di Carlo Cefaloni, redattore di Città Nuova (periodico mensile e quotidiano web).
Ringrazio la giuria del premio Colombe d’oro e Archivio Disarmo che come ho detto più volte considero un bene comune per il suo lavoro di ricerca autorevole e indipendente nel campo della pace, della guerra e del sistema delle armi. Nella vita è importante avere dei punti fermi, e uno di questi per me è appunto Archivio Disarmo con il quale esiste ormai una lunga collaborazione. Ricordo ad esempio quando nel 2007 siamo andati con Maurizio Simoncelli in via degli esplosivi a Colleferro, per sostenere un movimento nato dal basso contro le fabbriche di armi, comprese le famigerate bombe a grappolo, che poi ha dato alla rete tutela della valle del Sacco, cioè di un bellissimo territorio da bonificare perché inquinato da un complesso militare industriale che, nel secolo scorso, decise di farne un polo delle armi e poi della chimica mentre l’Italia aveva intrapreso la guerra in Libia e preparava l’entrata nel primo conflitto mondiale.
Parlavamo di ecologia integrale e conversione economica così come non si stanca di fare Francesco nel sostenere l’impegno contro “l’economia che uccide”.
Assistiamo, infatti, ad una strisciante egemonia della cultura della guerra che ha radici in nodi irrisolti della storia nazionale, se solo si pensa che nelle liturgie laiche della Repubblica che si svolgono nel qui vicino altare della patria si sentono le note del canzone del Piave invece di affrontare le ragioni di quell’orrendo mattatoio che secondo una certa narrazione è stato, invece, “utile” per completare l’unità d’Italia.
Quante volte ci è stato rimproverato di trattare di questioni di nicchia come il sistema delle armi mentre la gente pensa ad altro, tranne poi trovarsi gran parte dei media schierati a favore dell’inevitabilità della guerra davanti alla tragedia in Ucraina e all’orrore in Terrasanta. Da cattedre prestigiose si afferma letteralmente che è ora il tempo di decidere per cosa siamo disposti a vivere e a uccidere.
Siamo arrivati a questo punto dopo decenni di scelte strutturali trasversali che hanno condotto una grande industria controllata dallo Stato come Leonardo Finmeccanica a dismettere settori produttivi di grande innovazione tecnologica e impatto occupazionale a favore del comparto bellico, o come si dice, della Difesa, che poi deve competere sul mercato. In sede istituzionale sentiamo affermazioni che giustificano la vendita delle armi ai Paesi in guerra con questa logica che lascio a voi interpretare se in linea o meno con la Costituzione: se non le vendiamo noi, le armi, altri lo faranno comunque al posto nostro.
Come mi ha detto in un’intervista l’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, questa scelta di politica industriale è all’origine del declino economico italiano.
Quindi per non fare discorsi retorici sulla pace, bisogna dare spazio e creare dibattito sulle scelte che contano e per questo parliamo di economia disarmata. Per questo su Città Nuova abbiamo dato risalto e accompagnato il cammino del comitato riconversione Rwm, il fatto esemplare della società civile che non resta indifferente di fronte all’invio di armi in Arabia Saudita da parte della società Rwm controllata da una multinazionale tedesca. Grazie ad una mobilitazione estesa siamo riusciti a fermare questo flusso fino al 31 maggio di quest’anno, quando il governo ha deciso di rimuovere il divieto di esportazione per “l’attenuarsi del rischio di utilizzo delle bombe sulla popolazione civile in Yemen”. Ma se il lavoro è motivo di riscatto e non di ricatto occupazionale, allora è importante far conoscere la rete di imprese in Sardegna che ha deciso di costruire una rete di attività con il marchio warfree, cioè libere dalla guerra. Un percorso dal basso che mostra l’indirizzo che dovrebbero seguire i fondi del pnrr e quelli specifici del just transition fund previsti per le aree di crisi, come previsto in maniera specifica per il Sulcis Iglesiente.
Nella sua lunga storia, Città Nuova ha avuto come direttore Igino Giordani, uno dei padri costituenti che, da deputato, nel 1949 presentò, con il socialista Calosso, la prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza suscitando forti opposizioni nel suo stesso partito e lo scandalo dei tutori dell’ordine costituito che dissero: «ma così anche gli operai potrebbero decidere di non produrre le armi».
È quanto avviene oggi con i portuali del Calp di Genova che rifiutano di essere parte della filiera di morte. Ma è già avvenuto con l’obiezione dei lavoratori dell’Aermacchi e delle operaie della Valsella che fabbricava mine antiuomo. Sono loro che hanno permesso di applicare la Costituzione con la legge 185/90 che pone limiti all’esportazione di armi ai Paesi in guerra e/ o violano i diritti umani.
Una legge costantemente sotto attacco perché considerata un ostacolo al nostro sistema produttivo. Il 4 ottobre abbiamo promosso una conferenza stampa alla Camera per denunciare questa manovra che si fa strada grazie alla legittimazione progressiva della guerra. Abbiamo ricordato le parole di Draghi che invitava nel 2022 a scegliere la pace invece dei termosifoni per interrompere l’importazione di gas dalla Russia, invitando, ora, a fare lo stesso nei confronti del gas che arriva dall’Azerbaijan alle prese con il conflitto in Nagorno Karabakh, una guerra dimenticata che prefigura nuovamente lo spettro della pulizia etnica degli armeni. Tra l’altro vendiamo armi agli azeri che godono del sostegno della Turchia, Paese della Nato.
Non dovrebbe essere il compito di una stampa libera suscitare un vero dibattito invece di farsi dettare l’agenda da altre finalità in un flusso continuo e irrilevante di immagini e notizie?
Concludo con un desiderio che potrà sembrare folle in questo tempo ma che ritengo giusto fare qui: vedere un giorno Elio Pagani, obiettore dell’Aermacchi, e Franca Faita, operaia della Valsella, riconosciuti come massimi testimoni della Repubblica e della Costituzione.
Dobbiamo infatti dare spazio ad un’altra narrazione per non far prevalere il pensiero unico sulla guerra. Il prossimo 16 novembre in questa sala della protomoteca ci sarà un incontro programmato da tempo con la pastorale sociale nazionale che ha un titolo difficile e straziante “Non c’è pace senza perdono”. Ci saranno le testimonianze, ad esempio, di Giovanni Bachelet, delle comunità di pace nella Colombia e della famiglia palestinese dei Nassar che a Betlemme, pur sotto l’attacco costante alla proprietà della loro fattoria, continuano a ripetere: «non vogliamo essere i vostri nemici».
Cerchiamo di essere degni di questi testimoni!