Maggioranza e opposizione, se il paradigma della Rai ha ragione anche questa volta

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Quando nel 1976 Enzo Biagi scrisse che la Rai andava “studiata” perché anticipava sempre l’evoluzione politica del nostro paese la cosa sembrò a tutti un po’ strana. Poi ci si rese conto che il compromesso storico fra DC e PCI, mai realizzato concretamente e stroncato con l’assassinio Di Aldo Moro, era davvero stato anticipato dalla legge di riforma della Rai del 1975. E del resto quel pensiero e quella cultura chiamata “cattocomunista” era lievitata e aveva dato i suoi frutti migliori proprio in quel servizio pubblico dove le censure di Ettore Bernabei convivevano con i “corsari” come Umberto Eco, Gianni Vattimo Furio Colombo, Ugo Gregoretti e tanti altri maestri di giornalismo e di televisione.

Nei decenni successivi il paradigma della Rai anticipatrice della politica pur essendone al traino si è sempre confermato. Lo schema è sempre lo stesso: cambia il governo e in un giro più o meno lungo di mesi cambiano il consiglio di amministrazione, il direttore generale e negli anni più recenti l’amministratore delegato della Rai.

Il govero di destra destra ha cambiato l’approccio non nelle modalità ma nei fatti: cancellazione totale del pluralismo e occupazione di tipo militare di tutte le strutture editoriali e di gestione dell’azienda.

Molti dicono, senza conoscere i dati oggettivi, che aveva fatto così anche Berlusconi: non è vero. Gli editti bulgari e la cacciata di Biagi, Santoro ed altri avvenne, ce lo ricordiamo bene. Tuttavia nella complessiva offerta dell’azienda restavano tracce solide di pluralismo, il tg3, l’intera rai 3, poi la nuova rainews24, alcuni giornali radio, strutture gestionali e di servizio. C’era perfino la scelta di un presidente di opposizione e dei direttori generali sempre della destra berlusconiana, comprese le dimissioni di Lucia Annunziata nel 2003 contro la protervia delle nomine fatte da Flavio Cattaneo.

Vale la pena di sottolineare che con i governi Prodi e D’Alema alcune delle strutture più importanti, come erano rai1 e la fiction, il tg2, qualche giornale radio e aree non editoriali molto significative, dall’ufficio legale alla produzione, erano saldamente in mano a professionisti vicini al polo delle libertà. Come ai tempi della “zebratura” teorizzata da Biagio Agnes, che volle una rai3 forte e governata dal PCI perché capiva che il servizio pubblico poteva sconfiggere Mediaset (allora Fininvest) solo parlando a tutti gli italiani.

I governi tecnici si mossero ciascuno in modo diverso e confusionario come furono quei mesi; i “professori” nominati da Ciampi, digiuni e refrattari alla politica, si mossero cercando di salvare l’azienda dal tracollo finanziario, il governo Monti cercò tecnici riferibili però ai vari partiti che appoggiavano quel suo governo, avendo come ipotetico modello la Banca d’Italia (un antico sogno evocato decenni prima da Walter Veltroni).

Poi Renzi e Gentiloni avviarono il periodo della confusione totale, scelte di partito, di schieramento, trattative infinite con le poche opposizioni, ma con Renzi l’approvazione della nefasta legge che ha riportato indietro la Rai di 40 anni, rimettendola alle sole dipendenze del governo e azzerando di fatto quel minimo scudo di pluralismo che veniva garantito, paradossalmente, dall’obbligatorietà della lottizzazione.

Era ovvio che il primo governo di destra, sovranista, identitario e, aggiungo, il più incompetente del dopoguerra, animato da spirito di vendetta, di rivalsa, di rancore, avrebbe fatto quello che ha fatto: occupazione militare della Rai, smantellamento di rai3 e di ogni voce critica dovunque fosse allocata, azzeramento totale del pluralismo alla radio, spartizione di posti senza alcun criterio professionale, di esperienza o di anzianità, e soprattutto eliminazione dei conduttori e dei programmi ritenuti scomodi.

Dei risultati della Rai meloniana in due mesi è quasi inutile parlare, perché tutti i media danno ampiamente conto dei milioni di spettatori che da un giorno all’altro hanno abbandonato la Rai e si sono trasferiti in massa su la 7, la 9 di Fabio Fazio e un pochino pefino su Mediaset. Siamo a oltre 350.000 spettatori persi, e la fredda aridità dei numeri non può venire contestata da quegli araldi del potere che usano gli ascolti delle fiction storiche per negare il tracollo.

Occupazione militare facilitata al massimo da quell’amministratore delegato voluto dal governo Draghi e che, si diceva, di provenienza del PD, Carlo Fuortes. Non era in scadenza. Poteva firmare i contratti di Fazio e Gramellini prima dell’arrivo del nuovo consiglio senza infrangere alcuna regola. E “fargli vedere i sorci verdi”. Invece è andato a Palazzo Chigi a trattare la sua uscita e il suo posto, voluto con legge “contra personam” e oggi rigettata dalla magistratura. Parliamo del sovrintendente del teatro S, Carlo di Napoli.

E se vogliamo parlare del consiglio abbiamo visto trattative penose e telefonate per mantenere qualche vice direttore destinato alle ore notturne o pomeridiane dei telegiornali. La peggiore opposizione mai vista.

Le conclusioni sono semplici: il paradigma Rai dice oggi due cose: la maggioranza è di stampo totalitario e non guada in faccia a nessuno ma è talmente povera culturalmente che non riesce a gestire la Rai non avendo uno straccio di bravo professionista da mettere in campo! Una disfatta che non dovrebbe più consentire a nessuno di straparlare di egemonia culturale della sinistra.

L’opposizione non ha neanche provato a combattere, si è arresa e si è guardata intorno stupita, forse è in preda ancora a giramenti di testa o convulsioni e infatti dall’interno della Rai non riescono neanche a nominare un consigliere che difenda l’azienda come provava a farlo sempre Riccardo Laganà, che purtroppo ci ha lasciati.

Opposizione da parte delle varie categorie di dipendenti non pervenuta. Dunque bocciatura su tutta la linea per maggioranza e opposizione. Tutti contro tutti. Stato confusionale generale. Progressivo sbilanciamento dei conti. Crisi alle porte. Se la Rai anticipa ancora una volta la politica questo è lo scenario che attende il paese nei prossimi mesi. Almeno fino alle elezioni europee.


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