Condanna della strage di giornalisti a Gaza e richiesta di una corretta copertura mediatica della pulizia etnica e del rischio genocidio in corso
I bombardamenti continui sulla Striscia di Gaza e il blocco dei media a Gaza City minacciano l’accesso alle informazioni relative al conflitto in corso.
I dati diffusi dal Ministero di Gaza parlano di più di 11.000 i cittadini palestinesi uccisi nelle quattro settimane di assedio israeliano, secondo l’OMS i bombardamenti stanno uccidendo un bambino ogni dieci minuti. Secondo Reporters Sans Frontières, nel bilancio delle vittime ci sono almeno 42 giornalisti – 37 palestinesi e un libanese uccisi dall’IDF, quattro israeliani uccisi da Hamas – questo è, ad oggi, il conflitto con più giornalisti uccisi dal 1992. Secondo quanto riportato dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti, oltre alle 42 vittime, otto giornalisti sono rimasti feriti, di tre non si hanno notizie, 13 sono stati arrestati e ci sono state molteplici aggressioni, minacce, diversi attacchi cyber, e casi di censura.
Le famiglie di diversi colleghi sono state uccise. Wael Dahdouh, capo ufficio di Al Jazeera a Gaza e nome noto nel mondo arabo, ha appreso in diretta il 25 ottobre che sua moglie, i suoi figli e altri parenti sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano. Uno degli attacchi del 5 novembre ha colpito la casa del giornalista Mohammad Abu Hasira dell’agenzia di stampa Wafa. Nel bombardamento sono morti lui e diversi membri della sua famiglia. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Salman al-Bashir in lacrime, in diretta, mentre riportava la notizia della morte del collega Mohammad Abu Hatab e che, togliendosi pettorina ed elmetto identificativi, ha dichiarato “qui diventiamo delle vittime, prima o dopo moriremo uno dopo l’altro, nessuno ci vede […] Queste pettorine e questi elmetti […] non ci proteggono”.
Reporters Sans Frontières conferma che alcuni colleghi sono stati deliberatamente presi di mira durante i due attacchi israeliani del 13 ottobre nel Libano meridionale, nei quali è stato ucciso il videografo della Reuters Issam Abdallah e sono rimasti feriti altri sei giornalisti, nonostante la pettorina e l’elmetto ben visibili. Questa è una pratica comune dell’IDF, le cui colpevolezze dell’omicidio di Shireen Abu Akleh sono state confermate dalla Commissione indipendente ONU istituita per indagare sulla morte della giornalista di Al Jazeera, uccisa in un raid a Jenin l’11 maggio 2022. In seguito a delle accuse mosse contro i fotoreporter che hanno coperto gli attacchi del 7 ottobre, smentite da importanti outlet come la CNN, il New York Times, la Reuters e Associated Press, diversi politici israeliani hanno invocato l’assassinio dei nostri colleghi nella Striscia di Gaza.
Il continuo blocco delle telecomunicazioni, i bombardamenti di sedi delle testate in loco e il blocco dell’ingresso della stampa straniera e indipendente, se non limitatamente con l’IDF, è un attacco all’accesso all’informazione. Nell’ultimo mese sono state colpite circa 50 sedi di media a Gaza. Il Ministro delle Comunicazioni israeliano ha dichiarato che la decisione di chiudere l’ufficio stampa locale di Al Jazeera è ora in attesa dell’approvazione del Ministro della Difesa. Le forze israeliane hanno esplicitamente avvertito le redazioni giornalistiche che “non possono garantire” la sicurezza dei loro dipendenti dagli attacchi aerei. Considerato lo schema pluridecennale di attacchi letali ai giornalisti, le azioni di Israele mostrano una soppressione su larga scala della libertà di parola.
Come giornaliste, giornalisti, video e fotoreporter siamo sconvolti dal massacro dei nostri colleghi, delle nostre colleghe e delle loro famiglie da parte dell’esercito israeliano. Siamo al fianco dei nostri colleghi e delle nostre colleghe di Gaza. Senza di loro, molti degli orrori sul campo rimarrebbero invisibili.
Ci uniamo alle nostre colleghe e ai nostri colleghi statunitensi e francesi nel sollecitare la fine delle violenze contro i e le professioniste dell’informazione a Gaza e in Cisgiordania, e per invitare i responsabili delle redazioni italiane ad avere un occhio di riguardo per le ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi. Le nostre redazioni, senza il lavoro di chi ora è sul campo, non sarebbero in grado di informare il pubblico italiano rispetto a ciò che sta accadendo nella Striscia. Eppure, la narrazione quasi totalitaria della nostra stampa sembra essere poco oggettiva nel riportare le notizie.
Molteplici redazioni italiane e occidentali stanno continuando a disumanizzare la popolazione palestinese e questa retorica giustifica la pulizia etnica in corso. Negli anni sono state diverse le accuse di doppio standard. Tra le più eclatanti il caso della BBC, analizzato dalla Syracuse University nel 2011 e lo studio di come, negli ultimi 50 anni, la stampa statunitense ha coperto le notizie relative alla questione palestinese con una predilezione per il punto di vista israeliano. Nel 2021 più di 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta in cui esprimevano preoccupazione per la narrazione dei fatti di Sheikh Jarrah. Nelle stesse settimane, diversi accademici italiani hanno inviato una lettera aperta alla Rai in merito alla copertura delle stesse notizie.
Le nostre redazioni hanno in troppi casi annullato le prospettive palestinesi e arabe, definendole spesso inaffidabili e invocando troppo spesso un linguaggio genocida che rafforza gli stereotipi razzisti. Sulla carta stampata e nei programmi di informazione, la voce palestinese è troppo spesso silenziata. Non è stato dato abbastanza spazio a giornalisti e giornaliste arabofone esperti ed esperte sul tema, che sarebbero in grado di dare anche il punto di vista dei Paesi della regione. La copertura giornalistica ha posizionato il deprecabile attacco del 7 ottobre come il punto di partenza del conflitto senza offrire il necessario contesto storico – che Gaza è una prigione de facto di rifugiati dalla Palestina storica, che l’occupazione di Israele dei territori della Cisgiordania è illegale secondo il diritto internazionale, che i palestinesi sono bombardati e attaccati regolarmente dal governo israeliano, che i palestinesi vivono in un sistema coloniale che usa l’apartheid e che in Cisgiordania continuano i pogrom dei coloni israeliani contro la popolazione indigena palestinese.
Gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di essere “convinti che il popolo palestinese sia a grave rischio di genocidio“, eppure diversi organi di informazione non solo esitano a citare gli esperti, ma hanno iniziato una campagna denigratoria contro esperti indipendenti delle Nazioni Unite, come Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Il nostro compito, però, è fare informazione, fare domande scomode e riportare i fatti. L’omissione delle informazioni e il linguaggio che incita alla violenza, come la richiesta della bomba atomica su Gaza, sono comportamenti che rischiano di diventare complicità di genocidio, ai sensi dell’art. II.c della Convenzione di Ginevra del 1948 sul genocidio.
Invitiamo colleghi e colleghe a dire tutta la verità senza timori o favori, a usare termini precisi e ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, come “apartheid“, “pulizia etnica” e “genocidio“. A riconoscere che contorcere le nostre parole per nascondere le prove dei crimini di guerra o dell’oppressione di Israele sui palestinesi è una pratica giornalistica scorretta e di abdicazione alla chiarezza morale.
Questo è il nostro compito: chiedere conto ai decisori, chiunque essi siano. Altrimenti rischiamo di diventare complici di un genocidio e di una pulizia etnica.
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