In diverse parti del mondo si discute, attraverso approfondite analisi predittive, del futuro della carta stampata. Si suppone che il prossimo 2030 possa essere l’ora X per i giornali scritti: da allora, si sostiene, avremo prevalentemente le edizioni online accompagnate -al più- da versioni cartacee costose e rivolte ad un pubblico con ampie facoltà di spesa.
Attorno a quella data tramonteranno pure le frequenze digitali televisive.
Di questo qualsiasi governo, al di là del colore politico, dovrebbe occuparsi con cura e un pur sorvegliato senso della tragedia. Soprattutto, servirebbero misure straordinarie in grado di gestire senza eccessivi traumi l’età di transizione. E, a maggior ragione, va messa in agenda una vera riforma del settore, che manca -con un testo di qualche reale organicità- dal 1981.
Che fa, invece, la compagine presieduta da Giorgia Meloni nella proposta di legge di Bilancio? Introduce in un testo assai variopinto un articolo (n.62) dedicato nel titolo all’innovazione digitale nei settori dell’informazione e dell’editoria, ma in verità finalizzato ad un prosaico e mediocre obiettivo: rivedere i criteri di definizione del Fondo previsto dalla legge n.198 del 2016, che ora si chiama appunto «Fondo unico per il pluralismo e l’innovazione digitale dell’informazione e dell’editoria”. Unico significa un contenitore che comprende ricchi e poveri, società quotate in borsa e testate di grandi gruppi editoriali, insieme a fogli di associazioni culturali ed esperienze cooperative.
Non è una differenza piccola o ininfluente. Intanto, perché il Fondo storicamente volto a riequilibrare le storture del mercato è destinato a ridursi drasticamente nel corso del prossimo biennio. Inoltre, già oggi ne risulterebbe compromessa la capienza. Infatti, la tabella al capitolo 2196 del testo ci chiarisce che – ad esempio- i previsti 60 milioni di euro come credito di imposta per la carta vengono a gravare sul totale. Ne rimarrebbero 166, da suddividere tra la quota per l’emittenza e i giornali del vecchio Fondo. Senza contare i 55 ml dedicati alle Poste. Si può prevedere, quindi, che l’ammontare dell’anno passato di 93 milioni sia destinato ad assottigliarsi in una misura che va da un terzo alla metà.
Per questo, diversi parlamentari dell’Alleanza Verdi-Sinistra italiana e del Partito democratico hanno depositato un emendamento fondamentale, volto ad abrogare l’abrogazione del combinato disposto tra il decreto legislativo n.70 del 2017 e il comma 810 dell’articolo 1 della legge n.145 del dicembre 2018. Insomma, il Fondo originario va ripristinato nella sua autonomia e senza funeste previsioni di tagli.
Se si inserisce ogni risorsa in un pentolone eclettico e contraddittorio, il settore rischia di spegnersi proprio mentre è alle prese con una trasformazione epocale. Non solo. Con una certa ragione protesta la stessa Federazione degli editori, cui è lasciata una porzione di finanziamento per i cosiddetti ammortizzatori sociali, ma non è dato proseguire -pur con un vero ripensamento- con gli interventi straordinari immaginati sì per il Covid, e tuttavia oggi non meno necessari a fronte dei cambiamenti.
Insomma, la vita delle testate estranee ai banchetti del mercato e orientate a tutelare le differenti opinioni politiche e culturali è a rischio.
A proposito di difesa del pluralismo -esplicitamente previsto dalla Costituzione italiana- c’è da sottolineare la nota istituzionalmente dolente dell’articolato in esame. Per raggiungere i mutamenti previsti si suppone di poter procedere attraverso un regolamento (pur rafforzato sulla scorta della legge n.400 del 1988) e non mediante la fonte primaria della legge. Ciò significa di fatto esautorare il parlamento ed affidare al governo una discrezionalità quasi assoluta in una materia così delicata e sensibile per la democrazia.
La lunga marcia verso l’autoritarismo è in atto.
P.S. È stato votato per il consiglio di amministrazione della Rai in rappresentanza di lavoratrici e lavoratori Davide Di Pietro, che sostituisce il compianto Riccardo Laganà. Sinceri auguri di buon lavoro.