Il vertice della discordia islamica e quella vecchia idea di Horatio Kitchener

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Vorrei affidare a queste pagine di diario il racconto della fuga di un popolo – quello di Gaza con le sue donne, i malati, i bambini – “verso il nulla”, col mio basito dolore. Ma quel che posso fare è solo cercare di dare un “contesto politico” alla dimensione umana – enorme – di quel che accade. Mi perdoneranno i pazienti lettori.

Per quanto poco interessante possa risultare, specie in queste ore, il mio compito – per me il mio dovere – è spiegare cosa è avvenuto al vertice dei Paesi arabi riuniti a Riad e quali riflessi possa avere sulla condotta di Israele.

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Riparto dalle ragioni per cui si è tenuto un vertice congiunto della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. I due incontri sono stati uniti in uno solo, perché è risultato impossibile un accordo tra i “fratelli arabi”. Perciò, si è pensato bene di “diluire” i contrasti in un incontro più ampio e, quindi, meno stringente, il consesso islamico.

Il “fronte arabo della fermezza” si sarebbe presentato a Riad, infatti, con un pacchetto di proposte molto dure e chiare: congelamento di ogni relazione diplomatica, di intelligence e commerciale con Israele, con l’impegno a operare per la denuncia dei crimini di guerra perpetrati da Israele. A tale linea, il fronte che vuole mantenere relazioni diplomatiche con Israele – guidato dai sauditi – avrebbe detto “no”.

Un giornale molto importante – Il nuovo arabo – ha sostenuto che 11 leader dei Paesi arabi si erano espressi a favore della linea dura: tra questi, oltre ai palestinesi, tutti gli amici dell’Iran, quali Yemen, Iraq, Siria, Libano, ma anche importanti new entry del club: Libia e Qatar, ossia l’islam politico avverso ai sauditi e simpatizzante di Teheran.

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Vado ad osservare, nel citato gruppo, qualche dettaglio.

La Siria ospitava e tuttora ospita un enorme campo palestinese adiacente Damasco, dove c’erano 180.000 profughi. Si chiama Yarmouk. L’esercito siriano lo ha sottoposto ad un assedio impenetrabile per ben tre anni della lunghissima guerra siriana, determinandovi moltissime morti per inedia! Vi sono rimaste in tutto 15.000 persone. Forse, qualcuno ricorda le interminabili negoziazioni avvenute a suo tempo con l’ONU, che ha atteso per mesi il “disco verde” di Assad per poter avvicinare i suoi mezzi carichi di cibo e di medicine, operazione consentita, alla fine, però solo per poche ore. Quello stesso Bashar al-Assad, a Riad, ha detto di “non tollerare i crimini di guerra e la ferocia”: così ha detto!

Mi ha colpito anche la solidarietà manifestata dall’Iraq ai palestinesi. Ebbi modo personalmente di visitare il campo profughi dei palestinesi a Baghdad, nel 1999. Ai tempi ospitava quelli afflitti da gravi menomazioni o malattie irreversibili, come la sclerosi multipla: ricordo nitidamente i corpi avvolti da nubi di moscerini e l’odore, ma non ricordo personale sanitario iracheno indaffarato.

Passo – ancora sul filo dei miei ricordi – all’altro gruppo, quello che ora vuole le relazioni con Israele, guidato, appunto, dall’Arabia Saudita, con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Egitto, Giordania.

Hanno respinto anche l’idea di cercare uno choc petrolifero per provocare un rialzo mondiale dei prezzi. Ma non hanno saputo chiedere se l’Iran – capofila del fronte che abbiamo definito della fermezza – fosse o sia disponibile ad aumentare il prezzo del petrolio che vende alla Cina, per indurla a maggiore fermezza contro Occidente e Israele!

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Comunque siano andate le cose sottotraccia, prima del vertice, posta l’impossibilità di trovare un accordo nel mondo arabo, si è deciso di diluire le voci nel grande incontro islamico di 57 Paesi che hanno chiesto, salomonicamente, il cessate il fuoco. Così è diventato protagonista Raisi, il presidente iraniano, che non è di per sé arabo – vale sempre la pena di ricordarlo – e che, normalmente, esercita la sua influenza “da fuori” o “dietro le quinte” del fronte della fermezza. Il suo arrivo nella capitale saudita, Paese con cui, solo dal marzo scorso, ha riallacciato le relazioni diplomatiche, era e resta una notizia in sé.

La sua presenza e il suo intervento hanno mostrato la duplice garanzia che Tehran e Riad intendono reciprocamente offrirsi, a modo di “fredda pace”. I sauditi confidano che le tantissime milizie filoiraniane sparse in Medio Oriente non prendano più di mira l’Arabia Saudita e i suoi interessi. E il lungo colloquio tra i due leader, ha fatto contemporaneamente, confidare a Tehran che gli Stati Uniti non consentiranno azioni militari dirette contro l’Iran, per non dispiacere ai loro alleati arabi.

La circostanza ha offerto a Raisi e alla sua retorica una tribuna mondiale eccezionale, amplificata dai media. Ha così potuto dire – come ha detto – che lo stato palestinese si estende dal Giordano al Mediterraneo, disegnando una nuova carta geografica che cancella d’un colpo Israele, calcando le parole – da tutti ben notate – «bacio le mani, Hamas!»: espressione propria di quei linguaggi – lo si dice anche ai benzinai – e che andrebbe più opportunamente tradotta con «Dio benedica le tue mani», ma che sicuramente significa che solo la lotta armata, per lui, può produrre l’esito auspicato. Di tale benedizione, tuttavia – mi corre l’obbligo di ricordare – non v’era traccia ai tempi della battaglia di Yarmouk, solo pochi anni fa, quando la sua milizia, Hezbollah, partecipava all’eliminazione fisica dei palestinesi del campo.

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Dunque, mi vien da dire che è stato il vertice della discordia, coperta solo dalla retorica. La retorica abbonda da quelle parti, da troppo tempo. Basterà ricordare che l’autore materiale della strage nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila – il falangista libanese e cristiano Elie Obeika – alla fin fine, fu imposto dai siriani quale ministro per gli sfollati: disgustosa ironia!

Il senso dell’attuale retorica lo ha dato benissimo, come al solito, il potente capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah, che ha voluto di nuovo prendere la parola da Beirut, proprio durante il vertice, quasi per dire che il Libano a quel vertice lo stava rappresentando, di fatto, solo lui.

Ha detto che «(per noi) la guerra procede benissimo, perché tutto il mondo occidentale è in subbuglio per la ferocia di Israele e il nemico è in grave difficoltà», tanto che, a mio avviso, se Israele (con l’Occidente) si astenesse dal combattere l’assurda battaglia dell’Ospedale di Gaza, per lui sarebbe un bel problema. Io penso che l’intelligence israeliana, con quella occidentale, se volesse, potrebbe cercare di risolvere altrimenti i problemi connessi: ciò a cui, quell’ospedale, farebbe da scudo. Ma questa è solo la mia opinione.

Il vertice arabo ha attentamente considerato un altro aspetto, reale. Sarebbe stolto non tenerne conto. Le grandi manifestazioni di solidarietà con i palestinesi che avvengono nel mondo arabo islamico sono, almeno in buona misura, autentiche, perché i popoli non sopportano vedere i bambini morire, siano degli uni o degli altri.

Proprio per questo motivo, Nasrallah ha negato, col discorso di qualche giorno fa, che Hamas abbia voluto uccidere i bambini israeliani: per lui sarebbero stati uccisi dal fuoco di reazione israeliano il 7 ottobre. Ora muoiono quelli palestinesi e i regimi “moderati” non possono impedire nei loro Paesi le manifestazioni di solidarietà, anche per evitare che l’odio popolare si riversi su loro stessi, che non hanno fatto niente e non fanno niente: odio vero, sia nei regimi dalla linea dura, sia moderata.

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C’è un’ultima domanda, al riguardo, che qui voglio prendere in considerazione, la solita: che c’entra con tutto questo la religione, che c’entra l’islam?

Oggi mi sovviene, dalla storia, una figura ormai dimenticata, quella del segretario di stato britannico per la guerra, tra il 1914 e il 1916: Horatio Herbert Kitchener.  A differenza dei suoi connazionali lui non credeva opportuno colonizzare il mondo arabo dopo il crollo ormai imminente dell’impero ottomano. La sua idea era fare dell’emiro che governava sui luoghi santi di La Mecca e Medina una sorta di “papa islamico”, al quale affidare la guida spirituale di quei luoghi in accordo con la corona britannica.

Pensò di proporgli il titolo di Califfo, posto che lo stesso sultano ottomano si era dimenticato, ormai da secoli, di essere anche Califfo, cioè reggente della comunità dei fedeli musulmani. Ciò che non aveva valutato era quanto fosse frastagliata, divisa, complessa, la “famiglia islamica”. Così, quel progetto, pensato in maniera affrettata, fu accantonato, lasciando emergere una colonizzazione occidentale che creò Stati “inventati” con la penna sulla carta geografica e un islam ufficiale asservito ai colonizzatori.

Si volevano Stati moderni, ma solo in teoria. Presto così riemerse il potere dei potentati reali delle tribù. La figura del Califfo è scomparsa dallo stesso immaginario islamico: pochi ne hanno nostalgia ad un secolo esatto dalla sua abolizione (correva l’anno 1924 quando fu abolito). La matassa non è stata sbrogliata. Mentre un grande riformatore islamico, che crede sinceramente nell’islam spirituale, mi ha ripetuto, proprio in queste ore: «all’Islam servirebbe un Vaticano».

Il vero tema sarebbe quello della sinodalità islamica. Quante ideologie prodotte dalla battaglia politica potrebbero accantonarsi se una sinodalità islamica superasse gli appetiti di chi crede di essere o di dover diventare “il papa musulmano”, per dirla con Kitchener, creando, altrimenti, un cammino comune: non sarebbe più “la guerra santa”, l’estensione del conflitto, il cammino, bensì la costruzione di una proposta liberatorio dei popoli dai rancori e dai pregiudizi.

Ma non è all’ordine del giorno. Purtroppo. Ed è anche per questa ragione che, oggi, non posso scrivere che l’ipotesi dell’estensione regionale della guerra sia raggiunta, né del tutto rimossa, rimanendo annidata dentro i conflitti interni e reciproci tra Paesi variamente arabi e variamente islamici.


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