Non devono esserci limiti al diritto di sciopero: era uno dei capisaldi del pensiero di Giuseppe Di Vittorio, lo storico leader della CGIL che, con il proprio impegno sindacale e politico, fu uno dei punti di riferimento del pensiero democratico del dopoguerra. Nel 1970, poi, grazie all’approvazione dello Statuto dei lavoratori, la Costituzione entrò anche nelle fabbriche, garantendo tutele, diritti e dignità a lavoratrici e lavoratori che fino ad allora avevano subito ricatti e licenziamenti inaccettabili. E non è che fosse una stagione facile: basti pensare che erano da poco esplose le bombe di piazza Fontana, la “Strage di Stato”, con tutto quel che ne era conseguito in termini di mobilitazioni studentesche e operaie. Nonostante questo, la politica seppe offrire delle risposte, in un decennio che non può essere ricordato unicamente come il periodo delle stragi e della violenza, essendo stato caratterizzato anche, se non soprattutto, da leggi di progresso come il divorzio, l’aborto, il Servizio Sanitario Nazionale e l’abolizione dei manicomi. Esplodevano le bombe, sui treni e nelle piazze, ma nel frattempo la RAI veniva liberata dallo strapotere democristiano, aprendosi a un maggior pluralismo, mentre sbocciavano le radio libere e il protagonismo giovanile la faceva da padrone.
Oggi, per fortuna, non siamo immersi in alcun “autunno caldo”, non esplodono bombe e anche le manifestazioni, comprese le più a rischio, si sono sempre svolte in un clima civile e rispettoso. Eppure, un governo sordo e incapace di fornire soluzioni, che non siano slogan cattivisti e spot pubblicitari destinati a durare lo spazio di un telegiornale, ha pensato bene di dichiarare guerra a due delle principali sigle sindacali, la CGIL e la UIL, colpevoli di aver organizzato una serie di scioperi generali in tutta Italia per protestare contro l’iniquità di una manovra economica sbagliata e dannosa, contro una riforma devastante come l’autonomia differenziata e contro un progetto di smantellamento della Costituzione come il cosiddetto “premierato”: un presidenzialismo di fatto che ridurrebbe il Capo dello Stato a un taglianastri e il Parlamento a un orpello, più di quanto purtroppo già non lo sia attualmente. Tutto ciò è intollerabile.
Il diritto di sciopero, infatti, è l’inveramento dell’articolo 1 della Costituzione e di tutti i principî contenuti nella prima parte della Carta, compreso l’articolo 3, il cui secondo comma recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È quello che il professor Rodotà chiamava “diritto di avere diritti”, la chiave di volta del nostro stare insieme. Il lavoro, la partecipazione democratica, il rispetto reciproco, l’uguaglianza di fronte alla legge, la sanità pubblica, la parità di genere, la scuola come ascensore sociale e i nuovi diritti, sociali e civili, affermatisi negli ultimi anni, tra cui quello essenziale a essere informati correttamente su quanto avviene nel mondo: di questo stiamo parlando. Non uno di questi elementi essenziali del nostro stare insieme è stato rispettato dal governo, e dubitiamo che inizino a farlo da adesso in poi. Pertanto, a dispetto delle decisioni più che discutibili del Garante, ai nostri posti ci ritroveranno. Venerdì 17 e in ogni altra occasione di mobilitazione in difesa della democrazia e della Costituzione.
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