Siamo arrivati a 31 morti tra giornaliste e giornalisti nell’inferno di Gaza. E il numero è impressionante sia in sé sia relativamente ad altre aree di conflitto: a cominciare dall’Ucraina.
Un appello sottoscritto da un numero enorme di giornalisti italiani e soprattutto internazionali denuncia l’impossibilità ad ottenere il visto per entrare nella Striscia dalle autorità israeliane. Viene negato l’accesso di coloro che possono raccontare gli eventi tragici senza dover cedere alle voci della propaganda. Se no, si rischia direttamente la vita. È ciò che accade ai corrispondenti locali, in grande maggioranza palestinesi, ed è una colossale caccia all’uomo per tacitare chi può svelare l’allucinante sequenza dei crimini in corso.
Uno dei luoghi comuni del dibattito è il carattere (eccezionale, si usa affermare, in quel tratto geopolitico) democratico di Israele. E si strumentalizza qualsiasi critica all’operato di un governo tra i peggiori del mappamondo come un indizio di antisemitismo. Attraverso simile pesante ricatto (come se il popolo ebraico e Netanyahu fossero la stessa cosa) si consuma un ulteriore crimine, vale a dire la cancellazione della libertà e dell’indipendenza dell’informazione.
La federazione internazionale dei giornalisti, insieme al sindacato e all’Ordine professionale italiani hanno sollevato il problema ed è auspicabile che nel parlamento europeo e nelle Nazioni Unite qualcosa si muova.
Siamo di fronte ad una novità pericolosissima, peraltro persino inedita. I pur seri e capaci inviati delle maggiori testate sono costretti a muoversi nelle aree prestabilite e ad esercitare in modo limitato la propria attività.
Informare è un diritto, ma pure un dovere nei riguardi dell’opinione pubblica, che ha bisogno di conoscere per poter giudicare.
Non era accaduto, si è accennato, neppure nelle fasi iniziali della guerra scatenata dall’invasione della Russia in Ucraina. E men che meno accadde qualcosa di simile nelle vicende del Vietnam.
Ora si capisce meglio perché andava azzittito Julian Assange, visto che proprio grazie a WikiLeaks sono stati svelati i misfatti delle guerre di Iraq ed Afghanistan. Quanto se ne sente la mancanza, mentre si naviga nel buio illuminato dai raggi della morte.
Nei confronti degli avvenimenti manca, dunque, ogni opportunità di comprendere fino in fondo eventi piegati alla logica del verosimile, piuttosto che del vero. Un caso di scuola è stato il rullo contraddittorio delle notizie sull’esplosione dell’ospedale Al Ahli a Gaza. La colpa è passata da Hamas, all’esercito israeliano, alla necessità di capire meglio.
In simili condizioni, insomma, si può cedere alla peggiore faziosità o alla pura incoscienza comunicativa.
Le larghissime adesioni al citato appello segnalano una crepa nell’edificio democratico, che mina la bilancia dei e tra i poteri.
Il vento repressivo e reazionario, lesivo dei minimi fondamenti della vita civile, non si fermerà certamente alle linee di confine di Gaza. Nella terza guerra mondiale in corso non c’è posto per il diritto a sapere. E, forse, siamo solo agli inizi di un incubo che ci accompagnerà a lungo.
Se veniamo al mainstream nostrano, il panorama si fa sconcertante.
Alla soggezione al governo di destra nelle scalette dei principali telegiornali o nelle prime pagine dei principali quotidiano (si veda il surreale resoconto-non resoconto della proposta di legge di bilancio) si unisce l’estetica del dolore che induce a piangere sì, ma non a capire.
Serve una mobilitazione internazionale, che imponga di aprire varchi e ingressi nelle zone proibite a chi eroicamente intende rendere giustizia al diritto dei diritti, senza il quale non si possono esercitare tutti gli altri.
- Come i bambini sorpresi con le dita nella marmellata, una manina (di Fratelli d’Italia) ha introdotto un emendamento nella commissione Industria del Senato al testo sulla concorrenza, che innalza a 15 volt/m (oggi 6 volt/m) il limite dell’inquinamento elettromagnetico. La subalternità verso i gruppi delle telecomunicazioni è grave. Si lotterà. Una curiosità, però: il numero 15 è stato tirato a sorte?
(Da “il manifesto” di mercoledì 1 novembre)