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Elezioni argentine, frontiera estrema dell’Occidente in crisi

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E’ centrosinistra contro ultradestra, uno show-down tra senso comune (“che in realtà è il meno comune dei sensi”, ci ricorda il famoso scrittore e attore satirico argentino Enrique Pinti…) e il salto nel vuoto del non senso, effetto di un grande smarrimento. La periodica instabilità dell’economia argentina, una volta ancora sconvolta dall’iperinflazione (136%) innescata dal super indebitamento creato dall’ex presidente Mauricio Macri (2015-19) con il Fondo Monetario (FMI), ha portato una frustrazione sociale generalizzata tale da frantumare il consolidato schema politico bipolare. Nello scontro diretto tra la coalizione peronista-progressista e quella liberal-conservatrice è intervenuto un inatteso anarco-liberismo, aggressivo e spregiudicato, che ha sconvolto il fronte delle destre. Separando i centristi dagli estremisti, sostenuti dalla parte più incline all’azzardo del capitalismo nazionale e dalle illusorie speranze di spezzoni dell’elettorato, soprattutto tra i giovani e le fasce meno protette.

Ne è conseguito uno slittamento verso la restaurazione nell’intero asse dei partiti. Ciascuno dei quali, fin dalle “primarie” dello scorso agosto, ha scelto il candidato tra gli esponenti della propria destra interna. Protagonista del sommovimento, l’outsider che nel ballottaggio di domenica prossima per l’elezione presidenziale sfida un consumato esponente del peronismo conciliatore, l’attuale ministro dell’Economia, Sergio Massa, 51. Parliamo di Javier Milei, 53, un economista che si è fatto notare essenzialmente per le sue eccentricità personali, senza dubbio notevoli. Promette di autorizzare il commercio diretto donatore-ricevente di organi umani; racconta di parlare ogni giorno con l’amato cane recentemente defunto attraverso un medium di fiducia. Vuol “cancellare la politica”, che accusa di essere una casta di cui nega far parte; per ridurre ai minimi termini lo stato, affidando i destini di un intero popolo alla “privata creatività individuale”. Sono i tratti che più lo hanno pubblicizzato anche a livello internazionale.

Assai più consistente dell’operazione di marketing, sempre stando al programma di Milei, è però quella di bombardare la Banca Centrale, attraverso la sostituzione della moneta nazionale, il peso, con il dollaro degli Stati Uniti. La tanto mitica quanto controversa dollarizzazione, di cui si parla per lo più a sproposito in mezz’ America Latina. Ma che finora è fallita ovunque ancor prima di essere realizzata, salvo in Equador. Alla fine del secolo scorso, nel paese andino così come oggi in Argentina, avrebbe dovuto se non eliminare almeno ridurre significativamente inflazione e povertà. Mentre essenzialmente favorì scandalose speculazioni internazionali. Nel decennio successivo il deprezzamento della moneta fu frenato, però al costo di aumentare drammaticamente il costo della vita e la miseria: calcolati sul livello dei consumi, i poveri passarono da 3,4 milioni a 5 milioni e mezzo. Ancora oggi, la povertà urbana è al 27% e quella delle campagne (dove vivono 2/3 dei 19 milioni di abitanti) al 47% (ENEMDU, II trimestre 2023).

L’idea di un Big-bang monetario che Milei definisce “salvifico”, viene ritenuta impraticabile dalla grande maggioranza degli specialisti e degli organismi internazionali competenti a cominciare dallo Fondo Monetario, massimo creditore dell’Argentina. Da tutti i diversi livelli di cambio calcolati ipoteticamente dall’entourage di Milei, risulta infatti che le riserve della Banca centrale dispongono di non più d’un quarto dei dollari indispensabili all’operazione (30/40mila milioni). Trasformata in un dato del mercato, questa penuria renderebbe ancor più caro lo USDollar, determinando un incremento dei prezzi al consumo che taglierebbe brutalmente il potere d’acquisto di salari e pensioni, d’ogni reddito fisso. “Sarebbe una espropriazione di massa degli argentini, un trauma immenso che lo stesso Milei non avrebbe gli strumenti per governare”, spiega Claudio Loser, che ha diretto a lungo il dipartimento dell’FMI per l’America Latina.

Il voto ormai imminente, che al primo turno del 23 ottobre ha notevolmente frazionato il Congresso e consegnato alla sinistra peronista il governo della provincia di Buenos Aires -di gran lunga la più popolosa e ricca dell’Argentina-, rischia dunque di fratturare come mai prima anche il paese. La vigilia di quest’esito incerto è a dir poco elettrica. Anche perché la candidata a Vice di Milei, l’avvocata Victoria Villaruel, 48, manifesta un estremismo non minore del suo compagno di ticket. Nipote di militari attivi nel periodo della repressione clandestina e indiscriminata degli anni Settanta contro la guerriglia, ha giocato la sua campagna elettorale sull’altro punctum dolens della società argentina: pretende una qualche riabilitazione della feroce dittatura del generale Videla e dell’ammiraglio Massera. Vuole cancellare la macchia d’ignominia che marca quelle Forze Armate, i cui vertici furono condannati per reati infamanti da un regolare processo penale voluto tra il 1983 e l’85 dal restauratore della democrazia, il presidente Raul Alfonsin, e riconosciuto in tutto il mondo un esempio di giustizia ineccepibile.
(Nella foto Sergio Massa)


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