Con Sandra Huller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner
Cosa unisce Sandra e Samuel? Come in Antonioni, spesso evocato, e persino citato con “L’eclisse” come titolo di un libro, dalla regista Justine Triet, il rapporto di coppia diventa paradigma delle difficoltà esistenziali di ognuno. L’adolescente figlio dei due, Daniel, è un ipovedente, grande metafora di una realtà impossibile a disvelarsi e ad essere interpretata. Samuel viene trovato morto proprio dal figlioletto, ai piedi della loro casa immersa in una remota località di montagna. L’enigma suicidio-omicidio sprofonda lo spettatore in una realtà familiare fatta di apparenze, sofferenze, disagi esistenziali, fallimenti professionali, tradimenti necessari ma impossibili da viversi senza sensi di colpa. Le tante dissonanze cognitive di cui è sommersa quest’opera fanno venire in mente, inevitabilmente, gli intrecci tremendi ed ineffabili dei romanzi di George Simenon. Come per il grande scrittore franco-belga, anche qui la verità è appannaggio soltanto dagli illusi lavoratori dei tribunali, giudici e avvocati, pronti ad aggrapparsi ad indizi che sono soltanto illusioni ottiche a disposizione di chi vuole o deve crederci.
Come ne ” La conversazione ” di Francis Ford Coppola, e in “Blow Out” di Brian De Palma, le registrazioni vocali messe in primo piano dalla Triet durante le udienze catturano la realtà ma non la interpretano, non la spiegano, anzi la fraintendono e la falsano. Il piccolo Daniel, con i suoi silenziosi e nascosti ricordi, degni dell’indimenticabile Antoine Doinel dei truffautiani “I 400 colpi”, scagiona la madre rivelando, come solo un bambino può fare, quanto il padre Samuel fosse stato più volte vicino, in passato, alla sua estrema volontà di chiudere con la vita, oramai così impossibile da vivere per lui (e la voce di Daniel che si sovrappone a quella del padre è una delle tante genialità di cui la Triet dissemina il suo film). E se è vero che il cinema comunica con gli sguardi, a dirci tutto, in questo senso, della precarietà dell’umano è un cane, Messi, accompagnatore di Daniel e suo fedele amico che, come per il Balthasar dell’inarrivabile Bresson, regala, con i suoi occhi tristi e sempre consenzienti, a chi ha bisogno d’affetto, quell’esserci disinteressato e spiazzante, degno di quell’amore sempre necessario ma impossibile da raggiungere, anche quando lo vorremmo. Justine Triet disegna parabole narrative visive che vanno oltre, capace di catturare con la sua camera stylo attimi fuggenti carichi di pietas e bisognosi di condivisione, pronti a disvelarci tanto di noi stessi, “costretti” a rispecchiarci perchè spettatori di un’arte che ti regala emozioni che riescono anche ad assolverti dalle cose della vita da cui pensavi di essere già condannato. E cosa desiderare di più?