Partendo dal presupposto che nulla o quasi è peggio di Kaczyńsky, Morawiecki e del gruppo di potere, guerrafondaio e liberista, che ha tenuto in scacco la Polonia per oltre tre lustri, bisogna stare attenti prima di cantar vittoria. Sostenere, come ha fatto con comprensibile spirito propagandistico l’ex primo ministro Tusk, che è finita la stagione del populismo, è alquanto prematuro, specie se si considera la controversa storia di quel Paese e il suo posizionamento geografico. Non c’è dubbio, tuttavia, che le novità provenienti dalle urne ci abbiano restituito un po’ di speranza, se non altro nelle possibilità di sopravvivenza dell’Unione Europea, chiamata in giugno a un appuntamento col destino. Non è retorico, infatti, sostenere che nel caos globale nel quale siamo immersi ormai da tre anni, fra le conseguenze del Covid e lo sfacelo delle guerre che assediano la nostra piccola oasi di pace, un’eventuale prevalenza delle forze nazionaliste e sovraniste condurrebbe all’epilogo un esperiemnto, se proprio non vogliamo definirlo sogno, che ci ha garantito comunque oltre sette decenni di benessere e relativa tranquillità.
Il punto è che non possiamo illuderci di poter assistere come spettatori, benché interessati, allo sfacelo che vediamo intorno a noi. Taiwan ci riguarda, l’Ucraina ci riguarda, Israele ci riguarda, la Palestina ci riguarda, l’ascesa dei BRICS e la loro repentina espansione ci riguarda: non esistono vicende dalle quali possiamo sentirci estranei, meno che mai in un mondo che la globalizzazione ha reso interconnesso al punto che alcune decisioni assunte alle nostre latitudini dipendono in maniera diretta da decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza.
Vedremo, nelle prossime settimane, quale maggioranza verrà fuori dal Sejm, la Camera bassa polacca, se il presidente Duda conferirà al premier uscente Morawiecki il mandato di provare a formare un governo, essendo comunque il PiS (Diritto e Giustizia) il primo partito, con il 36 per cento dei consensi, o se preferirà affidarsi direttamente alla coalizione centrista incarnata, per l’appunto, da Tusk, che sulla carta potrebbe disporre di 248 seggi, dunque della maggioranza assoluta.
Come cambieranno gli equilibri interni di una nazione stressata da anni e anni di propaganda estremista, con l’aggressione sistematica alla magistratura, ai diritti, alla dignità delle donne e a ogni forma di libertà, a cominciare da quella d’espressione, tanto che noi per primi avevamo chiesto, inascoltati, provvedimenti significativi per evitare che l’antieuropeismo che sembrava egemone a Varsavia contagiasse come un morbo il resto del Vecchio Continente, è presto per dirlo.
Bisogna stare attenti anche a scambiare Tusk per un progressista: non lo è per nulla. E guai a pensare che siamo tornati ai tempi di Solidarność e delle speranze che, nel bene e nel male, seppe accendere nella popolazione. Il pensiero progressista è ben lontano dal tornare al potere in Polonia. Diciamo che l’alta partecipazione democratica, oltre il 72 per cento, un dato confortante, specie se comparato alla diserzione cui assistiamo ormai in Italia, e la voglia di cambiamento e di riscatto delle nuove generazioni hanno fatto la differenza, regalandoci una prospettiva meno sconfortante e la possibilità di credere ancora in un sistema fragile e appannato, sempre più ostaggio di spinte distruttive e in preda a una disillusione collettiva che, non di rado, si trasforma in sconforto e desiderio di minare alle fondamenta la nostra casa comune.
A pesare, nella sconfitta di Kaczyńsky è stata, infine, anche la sua posizione oltranzista, ai limiti del ridicolo, nei confronti della guerra in Ucraina. I polacchi, difatti, coscienti della loro storia e del secolo e mezzo trascorso a essere il “Cristo delle nazioni”, ingurgitato dagli imperi austro-ungarico, russo e prussiano, sanno meglio di altri quanto sia esile il confine che separa i proclami guerreschi dalla barbarie.
Auschwitz sorge da quelle parti, Treblinka anche e il peso del regime sovietico non se lo sono dimenticato. Probabilmente, quindi, hanno scelto un europeismo non entusiasmante ma consapevole, forse l’unico argine all’abisso che avevano a disposizione in questo momento.