I riflessi immediati della guerra in Medioriente aggiungono drammaticità e l’accelerano alla vigilia dell’attesissimo voto presidenziale argentino (la prossima domenica 22), già carico di rischi economici e istituzionali causati dall’estrema inflazione e dalla polarizzazione politica senza precedenti. Sono almeno 23 i desaparecidos argentini e 7 i morti tra i bombardamenti aerei di ritorsione sulla fascia araba di Gaza e il territorio israeliano colpito il 7 ottobre scorso dalla feroce incursione terroristica di Hamas. Non sono i soli sudamericani coinvolti negli improvvisi combattimenti che infiammano la zona tra le più nevralgiche della regione, sconvolgendone i sempre contestati e men che precari equilibri.
Mancano notizie certe anche di cittadini brasiliani, cileni, venezuelani e probabilmente di diversi paesi ancora. Sono 244 gli argentini rimpatriati d’urgenza con un volo speciale di Aerolineas da Tel Aviv e ulteriori interventi di soccorso sono in atto da e per altri scali sudamericani. Le collettività di origine ebraica tra Buenos Aires (la maggiore: 235mila persone), San Paolo, Santiago, Lima, Caracas, Bogotà sono infatti tutte molto numerose e attive in ogni ambiente sociale. In buona parte incrementate dalle persecuzioni nazi-fasciste subite in Europa negli anni Trenta del secolo scorso. Innumerevoli gli ebrei italiani riparati nei grandi centri urbani argentini e brasiliani per sfuggire alle leggi razziste del regime mussoliniano.
L’antisemitismo è stato poi rinfocolato nell’intero subcontinente durante la Seconda guerra mondiale e subito dopo la sua conclusione, dai regimi populisti prevalentemente di destra allora al governo: a cominciare da quelli di Juan Domingo Peròn, in Argentina; e di Getulio Vargas, in Brasile. Furono loro a offrire ospitalità e protezioni speciali a gerarchi nazisti tedeschi e fascisti italiani sconfitti e in fuga dall’Europa, dove era loro rimasta solo la complicità della Spagna franchista. Tutt’altro che privi di risorse materiali, costoro crearono rapidamente vincoli e interessi potenti nelle economie dei paesi in cui avevano trovato rifugio. Nell’ultima decade del secolo scorso, pur se con mezzi infinitamente minori, l’estremismo islamico ne ha seguito l’esempio, insanguinando Buenos Aires con orrendi attentati dinamitardi: 114 morti e centinaia di feriti.
La campagna elettorale argentina in atto non ne è stata tuttavia contaminata. Anche, forse essenzialmente, per ragioni cronologiche. L’attacco di Hamas e la reazione israeliana sono esplosi alla sua conclusione. Così che, anzi, i riflettori dell’informazione -soprattutto quella internazionale-, ne hanno voluto illuminare soprattutto un centro-scena spettacolare. Con un “bello”, un “brutto” e una “cattiva”. Proprio come se la prova politica che coinvolge 45 milioni di argentini e gli equilibri del Sudamerica fosse un avventuroso western-replay. E’ la grottesca allegoria pop dei tre maggiori candidati alle elezioni presidenziali di domenica prossima, emersa dal pantano propagandistico e dalle primarie che ne sono scaturite.
A imporla tatticamente è stato il “brutto”, Javier Milei, 53, l’ outsider che le ha vinte urlando con la faccia più feroce e beffarda le proposte dirompenti dell’estrema destra anarco-liberista: stato iper-minimo e maxi-privatizzazioni, libertà assoluta per il commercio, anche di organi umani. Non più moltiplicazioni delle identità sessuali, aborto, divorzi. Ma, innanzitutto, basta con la sfibrata moneta nazionale, il peso: dollarizzazione dell’economia, totale e immediata. Non importa se i tentativi precedenti nell’intero subcontinente sono finiti tutti nello scatafascio. E per mostrare che fa sul serio, semmai qualcuno ne dubitasse, a ogni suo comizio promette la salvezza nell’USDollar. Un’altra spinta alla speculazione, alla svalutazione e alla miseria.
Il primo a contrapporglisi, per logica narrativa, estetica e forza politica, è “il bello”, Sergio Massa, 51, peronista, moderato e manovriero, chiamato dall’attuale Presidente, Alberto Fernandez, a evitare il naufragio dell’economia in furiosa tempesta. La mission ricevuta, disperata se non impossible, è tirare dalla sua almeno una parte dei grandi capitalisti che per le primarie hanno largamente finanziato il “brutto” Milei, non perdere completamente i piccoli e medi imprenditori, conservare il grosso della tradizionale base peronista. A tutti ricorda che la catastrofe è stata avviata dall’enorme debito (44 miliardi di dollari) contratto dall’ex presidente Mauricio Macri con il Fondo Monetario Internazionale e da tutti (FMI compreso), ritenuto ora impagabile. Con l’ulteriore deficit creato dalla straordinaria siccità che ha dimezzato raccolti cerealicoli ed export agricolo.
Le residue chances elettorali, gli ultimi sondaggi della vigilia le attribuiscono a Patricia Bullrich, 67, passata nei trascorsi decenni da simpatie guerrigliere a un conservatorismo classico sempre più accentuato, e scampata per poco alla razzia di voti compiuta nelle primarie da Milei soprattutto ai danni della destra tradizionale. Non viene attribuito sufficiente appeal alla sua promessa di “rimettere a posto i conti”, non si sa come… Presentandosi invece come la reginetta di quella “casta” di cui Milei predice la fine nelle frequenti e pubblicizzate conversazioni via medium con il suo adorato cane-lupo morto prematuramente. “Passioni invece di riforme… in un’epoca in cui il desiderio sovrasta i sentimenti”, osservava già 30 anni addietro il filosofo Remo Bodei.