Non torneremo sull’atto compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre, per il semplice motivo che ormai in merito è stato detto e scritto tutto ciò che andava detto e scritto, e spesso anche qualcosa di più, utilizzando parole talvolta inutili e talvolta addirittura lesive dei diritti e della dignità di un intero popolo. Preferiamo concentrarci, piuttosto, sul popolo in questione, quello palestinese, che vede messo in discussione, ancora una volta, il suo diritto di esistere.
Sia chiaro: da queste parti, ci batteremo sempre per due popoli e due stati, condannando ogni forma di violenza e di sopruso. Per noi, infatti, non esistono vittime di Serie A e vittime di Serie B, non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Lasciamo questi manicheismi a chi ha tempo di giocare ai soldatini mentre migliaia di persone muoiono in circostanze atroci e una spirale di orrore senza fine si dipana sotto i nostri occhi. Abbiamo condannato tutto ciò che c’era da condannare e apprezzato il sia pur vago tentativo della comunità internazionale, Stati Uniti in primis, di convincere Netanyahu a evitare di compiere una strage. Non sappiamo se il segretario di Stato Blinken sia riuscito nell’impresa, ma gli riconosciamo, per una volta, di averci provato seriamente. Ciò premesso, vogliamo parlare di Gaza, della sua storia, della sua gente e del suo martirio. Nessuna azione, difatti, può giustificare ciò che sta avvenendo in quella striscia di sangue e di dolore, fra ospedali rimasti senza elettricità e poveri cristi rimasti senza acqua né cibo. Nemmeno la barbarie di un’organizzazione disdicevole, qualunque essa sia, può giustificare una decisione del genere. E non parliamo solo del caso specifico ma in generale, perché per noi, ribadiamo, tutti gli esseri umani sono uguali, con pari dignità e pari diritti. Non siamo amici o nemici di qualcuno ma fratelli del mondo e vicini a ogni sofferenza. E a Gaza, non da oggi, si stanno verificando situazioni che non possono in alcun modo lasciarci indifferenti.
Abbiamo condannato il fosforo bianco utilizzato a Fallujah, abbiamo condannato i bombardamenti a tappeto ovunque si siano verificati, abbiamo condannato le operazioni con truppe di terra e stivali sul terreno che hanno ridotto in macerie interi quartieri, abbiamo condannato gli insediamenti dei coloni israeliani piu oltranzisti, abbiamo condannato e continuiamo a condannare un governo inviso alla maggioranza degli stessi israeliani, in quanto estremista e negativo sotto ogni aspetto, e continueremo a farlo, contrastando, nel nostro piccolo, tutti gli orrori del mondo. Così come continueremo a sostenere che Hamas sia figlia della disperazione di un popolo che si sente assediato ma non sia certo la soluzione per quel popolo, in quanto eravamo e restiamo favorevoli al contesto democratico, sempre e comunque.
Perché i diritti umani possano affermarsi a quelle latitudini, tuttavia, è necessario che l’Unione Europea faccia la sua parte, assumendosi l’impegno solenne a far nascere uno Stato palestinese accanto a quello israeliano e a promuovere, contestualmente, un processo di pace, dialogo e confronto fra le parti.
Ed è arrivato il momento che qualcuno abbia il coraggio di scrivere una riflessione simile a quella che l’israeliano Gideon Levy ha recentemente consegnato ad Haaretz. Comincia così: “Dietro ai fatti degli ultimi giorni si nasconde l’idea che noi israeliani possiamo fare quello che ci pare, tanto non saremo mai puniti. Continueremo indisturbati. Arresteremo, uccideremo, esporprieremo e proteggeremo i coloni impegnati nei loro pogrom”. E ancora: “Spareremo su persone innocenti, strapperemo gli occhi e le picchieremo. Confischeremo, deruberemo, le trascineremo fuori dai loro letti, faremo pulizia etnica, continueremo ad assediare la Striscia di Gaza, e tutto andrà bene. Costruiremo una recinzione terrificante intorno a Gaza (il solo muro sotterraneo è costato tre miliardi di shekel, circa 721 milioni di euro) e penseremo di essere al sicuro”. Infine: “Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha una grande responsabilità per quanto è successo e deve risponderne, ma questa situazione non è cominciata con lui e non finirà con lui. Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane, ma dovremmo farlo anche per la Striscia di Gaza. Gaza, dove i residenti sono soprattutto rifugiati creati da Israele. Gaza, che non ha mai conosciuto un solo giorno di libertà”.
Come giornalista italiano, oltre a ringraziare di cuore Levy per questa testimonianza, provo un senso d’invidia. Perché se queste parole le avessi scritte io, se questa non fosse una citazione, non oso immaginare cosa sarebbe successo una volta pubblicato l’articolo. E il fatto di dover riprendere un editoriale tradotto da Internazionale per avere un quadro realistico e autocritico di ciò che sta accadendo la dice lunga sul male oscuro che attraversa le decadenti democrazie occidentali. Ha ragione Levy quando parla di libertà e oppressione, ha ragione quando sostiene che la rabbia è un propellente che nessuna recinzione può arginare e ha ragione quando parla di arroganza, incomprensione e rischi enormi che corre uno Stato ormai in guerra con se stesso, oltre che con i vicini. Uno Stato che Levy ama e che noi abbiamo il dovere di proteggere, di cui abbiamo il dovere di rivendicare l’esistenza e l’inviolabilità. Uno Stato che, però, può avere un domani solo se accetta l’idea che quella terra non sia solo sua, che esista un altro popolo ugualmente meritevole di cura e attenzione e che con quel popolo debba prendersi per mano, abbattendo i muri e ponendo fine a umiliazioni e crudeltà. È un’utopia oggi come oggi, lo sappiamo, ma è anche l’unica speranza che ci resta per allontanare l’incubo del terrorismo che si sta riaffacciando nelle nostre città e lo spettro di una guerra mondiale che, se continuiamo di questo passo, potrebbe non essere più a pezzi, come indicato profeticamente dal Papa ormai nove anni fa.
Quanto ai bambini, alle donne, alle ragazze e ai ragazzi, abbiamo pianto una settimana fa dopo il massacro ai danni di giovani che stavano solo ballando con i sogni e le speranze dei loro vent’anni e piangiamo oggi al cospetto di un popolo in fuga, stremato dalla fame, dalla sete e dall’impossibilità di trovare riparo da una reazione che ha già mietuto un numero elevatissimo di vittime. Perché sangue chiama sangue, odio chiama odio, vendetta chiama vendetta e noi pacifisti, con in mano la nostra bandiera arcobaleno, siamo stanchi di subire le rappresaglie di tutti i fondamentalismi che dilaniano un mondo ormai talmente impazzito da non essere più capace neanche di guardarsi negli occhi.
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