All’alba del 3 ottobre 2013, un vecchio peschereccio con oltre 500 persone bordo naufraga a ridosso dell’isola di Lampedusa. Vengono recuperati 368 corpi di persone di nazionalità eritrea. Per la prima volta, i corpi dei naufraghi sono visibili al mondo intero. È un evento che cambia la percezione dei naufragi e che scatena una reazione emotiva a livello politico, mediatico e sociale. La polizia scientifica ed i medici legali di Palermo ed Agrigento, impiegano giorni interi per mettere in fila tutti gli oggetti trovati sui corpi dei naufraghi di Lampedusa e raccogliere campioni di DNA. Un lavoro devastante ma fondamentale per avere la possibilità di effettuare riconoscimenti, comparazioni e restituire un nome, un’identità alle vittime di quella tragedia.
“Corpi di reato”. Sono state aperte le scatole e poi le buste per vedere cosa ci fosse di ancora utilizzabile e cosa invece fosse stato corroso dal tempo e dalla salsedine. Un odore penetrante. “Corpi di reato”. Le parole hanno sempre un senso e cambiano forma alle cose. Trasformano un giocattolo in una prova da portare in tribunale.
La forza di quegli oggetti è lo sguardo che portano con sé. L’identità perduta di chi li ha posseduti, tenuti in tasca. E allo stesso tempo è anche l’identità di chi ha amato quelle persone e che magari le aspetta ancora. Dare dignità a quegli oggetti significa fare un passo verso la costruzione di una memoria condivisa, una memoria comune, quella degli esseri umani.
Raccontare i contesti, i percorsi e i luoghi da cui le persone provengono significa riconoscere il ruolo di un’informazione corretta e accurata. Un’informazione che si nutre di parole discriminanti, come il termine “clandestino”, secondo quanto affermato poco più di un mese fa dalla Corte di Cassazione, entrato nel lessico giornalistico e utilizzato quasi “involontariamente”, ma dagli effetti pericolosi sul corpo sociale di divisione e di amplificazione della paura.
Un’informazione che, nel 2013, per raccontare il naufragio, si nutriva di parole dalla parte delle persone: le condizioni dei naufraghi, la mancanza di acqua e di cibo, l’inadeguatezza di una nave mercantile e del suo equipaggio ad assistere persone trovate in condizioni drammatiche a bordo di un gommone. “Ovunque si voglia ricordare la tragedia di Lampedusa non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi dieci anni nei confronti di migranti e rifugiati, gli “ultimi della terra”, afferma Padre Mussie Zerai, figura di riferimento della comunità eritrea. Descrivere e testimoniare quanto continua ad accadere in Eritrea – così come in molte altre aree del mondo – è già un passo per avere una informazione completa sulle migrazioni.
Paola Barretta e Valerio Cataldi
Gli oggetti sono esposti a Milano al Memoriale della Shoah fino al 31 ottobre 2023, è un’iniziativa di Zona, Carta di Roma, in collaborazione con Adal Neguse