I due volti di un capolavoro mancato

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“Killers of the Flower Moon”, di Martin Scorsese, Usa, 2023. Con Leonardo Di Caprio, Robert De Niro, Lily Gladstone.

Anche per la critica cinematografica a volte non giova essere manicheisti. Impossibile è dire che il film di Scorsese non sia riuscito, come impossibile è dire che sia un capolavoro, cioè un’opera senza pecche. Almeno per due ore piene, su tre ore e venti, l’ultima opera del regista statunitense lascia interdetti per la grandezza nel saper descrivere con una straordinaria minuzia di particolari la parabola spaventosamente prevaricante dell’ideologia capitalista, individualista e liberista, che sta all’origine di un paese come gli Stati Uniti. Siamo tra la fine degli anni Dieci e l’inizio degli anni Venti del secolo scorso, e l’Oklahoma degli Osage, una Nazione di nativi indiani americani, è l’ultima frontiera da conquistare per i “gringos”, dopo lo sterminio dell’epopea western ottocentesca tanto raccontata al cinema nei modi più diversi e contraddittori. La scoperta del petrolio nelle terre degli Osage porta a questi ricchezza, perdita d’identità, ma anche l’occasione per la riacquisizione di un orgoglio da conservare con gelosia. Ad attentare alla loro sopravvivenza sono i “bianchi”, i “civilizzati”, quelli per i quali il Dio denaro è ormai puro spirito interiorizzato, in nome del quale compiere le peggiori atrocità. Sposare donne indiane oramai benestanti diventa per questi un modo per arricchirsi, entrando nelle loro case fino a teorizzarne l’eliminazione fisica attraverso la scienza medica occidentale, “usata” così per i loro fini. Farle ammalare e morire, facendo finta di curarle, e depredarle “legalmente” di ogni bene è una delle strade alternative all’omicidio diretto, quando questo si mostra difficilmente praticabile. Questo accadde e questo ci racconta Scorsese, con una introspezione antropologica ed una partecipazione emotiva da lasciare senza fiato. Quello del regista newyorkese è un cinema profondamente “visivo”, in cui lo sguardo dei suoi protagonisti penetra negli occhi dello spettatore in una tridimensionalità narrativa capace di cogliere contemporaneamente senso storico, racconto sentimentale ed empatia intellettiva.

I precedenti film di Scorsese, “The Wolf of Wall Street”, 2013, sull’impossibilità di regolare la logica del Capitale, e “Silence”, 2016, sulla ragione dell’essere missionari e del pretendere di prevaricare un credo a favore di un altro, insieme all’amore dello stesso artista americano per il nostro Vittorio De Seta e il suo cinema a difesa di un mondo in via di estinzione, quello dei contadini e dei pescatori siciliani e calabresi degli anni ’50, sono i palesi momenti ispiratori alla base di questo film. Tutto funziona alla perfezione, fin quando Scorsese non inserisce, in questo tragica discesa negli inferi nel lato buio dell’umano, il tentativo di raccontare una dipendenza psicologica tra i due protagonisti maschili, che spariglia la logica stessa del film, sia in fase di continuità narrativa che di capacità di racconto. Questo nuovo ed irrisolto intreccio narrativo, unitamente alla lungaggine finale da legal movie, rischia di far scivolare un discorso di interesse collettivo, naturalmente veicolato da forti vissuti individuali, in un altro che oscilla tra il dramma privato mal raccontato e la capacità degli Stati Uniti di saper porre riparo alle sue malefatte, in una sorta di modalità autocorrettiva e anticorpale, soltanto in apparenza democratica, che è stata spesso alla base di molti altri film d’accusa statunitensi, da quelli di Frank Capra a molti della pur rivoluzionaria New Hollywood anni ’70, di cui lo stesso Scorsese fu uno dei gloriosi “padri fondatori”. La presenza finale dello stesso regista sullo schermo chiude, però, al meglio, attraverso una sorta di appello a non dimenticare, un film che rimarrà per sempre nella memoria di chi cerca un cinema umanista, per dirla con Roberto Rossellini, uno dei grandi Maestri della settima arte più amati dallo stesso cineasta americano.


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