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Víctor Jara, il poeta che cantò l’ultimo Cile

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Victor Jara era un poeta, un cantautore, un militante comunista ma, soprattutto, un sognatore che non si è mai arreso. Venne inghiottito, a soli quarant’anni, dalla ferocia golpista del regime di Augusto Pinochet, subendo l’arresto mentre si trovava all’università di Santiago, torture atroci nell’Estadio National de Chile trasformato in un lager e infine l’esecuzione il 16 settembre del ’73. Fu ucciso lo stesso giorno di Fredy Taberna, il protagonista de “Le rose di Atacama” di Luis Sepúlveda, un racconto-capolavoro che illustra alla perfezione cosa significò quella mattanza per il Cile e per la generazione che ne venne irrimediabilmente travolta.

Victor stava per compiere quarantun anni quando venne assassinato, Fredy ne aveva appena ventiquattro e anche lui, come detto, subì la stessa sorte, sfiorendo come una delle meravigliose rose del deserto in cui era nato, in una stagione che spezzò per sempre l’effimero sogno allendiano.

Victor Jara aveva cantato la magia dell’ultimo Cile, prima che discendesse il buio e che le ombre continuassero ad aleggiare sul paese anche molto tempo dopo la conclusione del regime militare che lo aveva tenuto in scacco per diciassette interminabili anni.

Dalla “Preghiera ad un contadino” a “Ti ricordo Amanda”, Jara ha narrato in musica il Cile della spensieratezza e della speranza, il Cile di Neruda e della battaglia per una società migliore, il Cile che abbracciava con entusiasmo l’esperimento socialista di Allende, il Cile dell’allegria che non è mai tornata, benché sia stata protagonista del referendum che nell’88 sancì di fatto l’esaurirsi della presidenza di Pinochet, ormai invisa ad ampie fasce della popolazione. Come spiegò proprio Sepúlveda in un’intervista rilasciata a Enzo Biagi, di quel Cile felice e utopista non era rimasto praticamente nulla, a cominciare dalla sua generazione, sconfitta e devastata, nel corpo e bello spirito, non solo dalle atrocità subite ma anche dal senso di ingiustizia che la accompagnava.

Non a caso, sempre Lucho scriveva: “Sono passati venticinque anni. Forse ha ragione Neruda quando dice: “Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi”, ma in nome del mio compagno Fredy Taberna continuo ad annotare le meraviglie del mondo su un quaderno con la copertina di cartone”.

No, non siamo più gli stessi. Il Cile di oggi, benché guidato da un’amministrazione di sinistra che sta offrendo buona prova di sé, non ha nulla a che spartire con quello che immaginava un orizzonte di gioia e di benessere, di condivisione e di pace, di armonia e di solidarietà collettiva negli anni in cui Víctor Jara si inseriva all’interno di un panorama musicale di primissimo livello.

Sinceramente, a distanza di mezzo secolo, non sappiamo che farcene delle condanne di alcuni dei suoi aguzzini. Le riteniamo, anzi, un errore, in quanto sarebbero state preferibili delle condanne simboliche che avessero sancito pubblicamente la natura criminale di determinati personaggi, senza tuttavia aggiungere al dolore la vendetta nei confronti di persone ormai anziane e innocue. Il loro essere figure spregevoli non dovrebbe mai farci dimenticare che, se vogliamo onorare la memoria dei martiri di quell’orrore, abbiamo il dovere di essere diversi in tutto e per tutto.

Per rendere omaggio a Víctor Jara, pertanto, preferiamo citare i versi bellissimi che compose da dentro lo Stadio di Santiago poco prima di essere massacrato: “Canto, come mi vieni male / quando devo cantare la paura! / Paura come quella che vivo, / come quella che muoio, paura / di vedermi fra tanti, tanti / momenti dell’infinito / in cui il silenzio e il grido / sono le mete di questo canto. / Quello che vedo non l’ho mai visto. / Ciò che ho sentito e che sento / farà sbocciare il momento…”. La canzone sarebbe stata poi tradotta in inglese e musicata da Pete Seeger, con il titolo “Estadio Chile”.

Per troppo tempo, di Víctor, di Fredy e della gioventù cilena dilaniata dai militari golpisti se n’è parlato poco o nulla. Sono ricomparsi sulla scena del mondo quando ci siamo resi conto che la storia non fosse affatto finita, che la Scuola di Chicago avesse generato solo dolore e sofferenza ovunque siano state attuate le sue teorie economiche e che non bastasse la tecnocrazia per restituire fiducia a un popolo, qualunque esso sia, essendo necessaria a ogni latitudine la passione, la convinzione e persino lo stupore che negli ultimi cinquant’anni è andato sempre più attenuandosi.

Víctor Jara, in conclusione, non è solamente una vittima illustre di una dittatura disumana ma è l’emblema di tutto ciò che abbiamo perso e, forse, non ritroveremo mai più. Eppure, proprio come Lucho, anche noi conserviamo un quaderno di cartone su cui annotiamo, ogni giorno, la meraviglia del mondo. Perché non saremo più gli stessi, saremo anche invecchiati, stanchi, disillusi, ma il desiderio di non arrenderci quello no, non ce l’hanno ancora tolto. E così facciamo memoria, raccontiamo storie, ricordiamo i protagonisti tragici di quei giorni e indichiamo un orizzonte alternativo. Se non altro, per utilizzare le parole di Lucho, “per ricordarci che la vita non è altro che una stoica forma di resistenza”.


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