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Un ricordo di Gianni Vattimo il filosofo che ebbe il coraggio di fare i conti con il nichilismo

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Ho conosciuto Gianni Vattimo a Napoli, più di trent’anni fa, in quello che all’epoca era il santuario mondiale della filosofia: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici fondato e diretto dall’indimenticabile avv. Gerardo Marotta. Lì, nello splendido palazzo Serra Di Cassano, la Rai di Napoli aveva creato un piccolo studio televisivo dove si registravano le interviste ai filosofi, agli storici e agli scienziati che venivano da ogni parte del mondo per tenere i seminari.

In quello studiolo c’era la prima redazione della Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, un progetto nato in seno alla Rai e all’Istituto, di cui Vattimo fu non solo un convinto promotore ma vi contribuì con ben sette interviste-lezioni, di un’ora ciascuna, su tutti i problemi più pressanti del nostro tempo analizzati attraverso la lente della sua straordinaria intelligenza.

Ma l’amicizia con Gianni si è consolidata ad Heidelberg nel 2000 in occasione del centesimo compleanno del suo maestro Hans Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica moderna: una festa indimenticabile, una sorta di Simposio i cui commensali erano, tra gli altri, Habermas, Derrida, Ricoeur, Apel e… Vattimo.

Ma Gianni, una delle menti più brillanti nel panorama filosofico del XX secolo, deve la sua “maledetta” popolarità al conformismo, quello che abita nei piani alti e quello dei bassifondi della cronaca giudiziaria e pruriginosa.

Nei circoli filosofici il suo pensiero debole (Feltrinelli, 1983) è stato interpretato come una forma di resa della filosofia, un’apologia del relativismo assoluto, un’appendice alla “condizione postmoderna” di Lyotard, laddove si trattava di una presa d’atto della crisi della metafisica tradizionale formalizzata da Nietzsche (non esistono fatti ma solo interpretazioni) dove la verità non è più l’oggetto di una ricerca ma piuttosto una posta in gioco: vince chi è in grado, arbitrariamente, di spacciarla per vera. Non vi è dubbio che in un mondo in cui la realtà è solo un conflitto di interpretazioni, la caduta nello scetticismo e nel pathos del disincanto è una logica conseguenza; ma proprio per contrastare questa deriva nichilista Vattimo faceva appello alle implicazioni etiche e politiche di un relativismo “relativo”: alla tolleranza, al dialogo con le altre culture e civiltà, alla democrazia, alla filosofia come strumento  prezioso per debellare il fanatismo, moltiplicando le prospettive sulla realtà e affrancandoci dalla convinzione di verità assolute, scevre dal dubbio, che producono soltanto intolleranza e violenza.

Dall’altro versante, quello dei media, Vattimo è stato ridotto a uno dei tanti sciagurati protagonisti di “Un giorno in pretura”. La sua vita privata, il suo disagio mentale sono divenuti oggetto di una cronaca maleodorante. Quando il suo compagno è stato condannato per circonvenzione d’incapace, l’ultimo grande filosofo italiano del XX secolo è stato consegnato ai posteri non per la sua genialità ma per la sua malattia. Per questo vogliamo ricordarlo con affetto riportando di seguito alcuni brani significativi del suo pensiero tratti dalle interviste televisive che ci ha donato e che, purtroppo, sono ancora in gran parte inedite.

 

“Noi viviamo in un’epoca in cui si è manifestato il carattere interpretativo della realtà, in un mondo di agenzie interpretative, stazioni televisive, giornali, culture diverse. Noi abbiamo sempre considerato come ovvio il nostro schema di interpretazione del reale, ma ci sono culture diverse di cui noi siamo diventati conoscitori attraverso i viaggi, le scoperte geografiche, i contatti e che abbiamo dovuto riconoscere soprattutto nel nostro secolo, quando si sono rivoltate contro le imposizioni colonialistiche europee degli schemi della cultura europea. Siamo di fronte a interpretazioni diverse del mondo persino quando tratta di sapere in che anno si vive.

Quello che ha senso, secondo me, è la riflessione sulla storia della nostra cultura come storia dell’assottigliamento e dell’indebolimento delle strutture dell’essere, cioè di ciò che noi pensiamo come realtà; la realtà una volta ci è stata data come fondata su un principio stabile: le idee di Platone, la volontà divina del creazionismo ebraico cristiano, le essenze, le forme o anche gli a priori di Kant; forme a priori di una ragione sempre uguale a se stessa che organizza in modo sempre uguale la varietà dei fenomeni che le vengono dati; tutte queste stabilità appartengono all’epoca dell’essere in cui non eravamo ancora consapevoli dell’esito finale e dissolutivo della tecnologia; cioè partiti dalla stabilità siamo arrivati alla volontà di potenza di Nietzsche, che è l’espressione massima dell’idea che l’essere come oggettività è l’essere come posizione, l’essere come volontà, l’essere come arbitrarietà di chi lo produce e lo manipola. Tutto questo, sebbene concettualmente comporti delle difficoltà, mi sembra una buona descrizione della situazione a cui siamo giunti oggi”.

 

 


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